Bertinotti contro Lepanto - Numero 41



SOMMARIO DELLA SEZIONE:

  • BERTINOTTI CONTRO LEPANTO
  • GRAMSCI, UN GRANDE UOMO



    NUOVI ICONOCLASTI: BERTINOTTI CONTRO LEPANTO

    Con la decisione di rimuovere dallo studio di Montecitorio un quadro illustrativo della battaglia di Lepanto, che nel 1571 aveva dato luogo ad una vittoria cristiana epocale, il Presidente della Camera Fausto Bertinotti, contrariamente ai suoi stessi auspici, non ha reso un servizio alla causa islamica e della sua componente moderata, certamente maggioritaria. Infatti, la coscienza collettiva ha reagito con forte impostazione critica, facendo quadrato intorno ai valori della civiltà occidentale e prendendo le distanze, in termini più accentuati, da tutte quelle suggestioni terzomondiste che ormai da tempo fanno parte del bagaglio di una sinistra sempre più lontana dal marxismo ortodosso, ma sensibile come non mai al richiamo radical-chic.

    Il mondo ha comprensibilmente gridato allo scandalo quando i talebani fecero scempio delle statue afghane di Buddha che costituivano una componente significativa del patrimonio culturale dell’umanità, nella stessa misura in cui aveva manifestato totale dissenso dalle efferatezze perpetrate dalle Guardie Rosse di Mao durante la seconda ondata della Rivoluzione cinese, non solo nei confronti del popolo, ma persino in quello dell’arte, che in quanto tale trascende dottrine, ideologie ed epoche. Ebbene, quanto ha fatto Bertinotti si inserisce nella stessa negazione di una cultura intesa come valore universale: dopo tutto, la volontà di affermare la priorità del pluralismo, della comprensione e della pace, che secondo il Presidente della Camera costituisce la chiave di lettura del discusso provvedimento, avrebbe potuto essere manifestata attraverso iniziative di tipo convenzionale, come un convegno od un simposio, in cui distribuire gli abbracci di rito a qualche musulmano, meglio se fondamentalista.

    Rimuovendo il quadro di Lepanto (a proposito, sarebbe il caso di avere notizie meno approssimative sulla sua nuova collocazione); Bertinotti ha voluto dare, invece, un segnale piuttosto preciso di simpatie che hanno ben poco di laico e molto di iconoclastico: sul piano morale, se non è un’offesa ai valori fondanti dell’impegno cristiano, a cui il Presidente della Camera dovrebbe essere sensibile, se non altro per la matrice solidaristica che in altre occasioni aveva dichiarato di condividere, poco ci manca.

    Con la battaglia di Lepanto, la storia d’Europa, ma si potrebbe dire del mondo,fece registrare una svolta fondamentale, non solo per la sofferta vittoria delle armi cristiane, ma prima ancora, perché la concentrazione di forze che diede luogo alla Lega Santa parve anticipare, sia pure brevemente, una più moderna consapevolezza di quanto possa unire, piuttosto che dividere, l’appartenenza ad una civiltà capace di parlare al cuore degli uomini, perché fondata sullo spiritualismo. La difesa di questa civiltà, che ebbe momenti essenziali non soltanto a Lepanto, ma un secolo più tardi, anche davanti alle alture viennesi del Kahlenberg, perché l’avversario era a sua volta credente e valoroso come pochi, si tradusse in fasti da epopea: proprio per questo, il riconoscimento di tanti sacrifici attraverso l’arte figurativa non avrebbe potuto e dovuto essere tradito per una concessione alla moda od alle convenienze contingenti.

    In buona sostanza, Fausto Bertinotti, negando il ruolo di un’arte che supera per definizione i limiti del contingente, ha confermato, forse non del tutto inconsciamente, lo schematismo di una formazione culturale in cui anche il momento estetico finisce per essere subordinato a pregiudiziali utilitaristiche. Va soggiunto, peraltro, che nel caso di specie si tratta di un utilitarismo privo di un’ampia valenza sociale, ma subordinato ad esigenze di impatto meno nobile, come quelle del cosiddetto "teatrino della politica".

    Il Presidente della Camera è uomo di grande esperienza e di spiccata sensibilità, ma proprio per questo sorprende che nella fattispecie non abbia ritenuto di dover prescindere dalle sue propensioni ideologiche, come sarebbe stato auspicabile per chi, occupando la terza carica dello Stato, ha da essere necessariamente "super partes". A dire il vero, Bertinotti non è nuovo a comportamenti che si possono definire partigiani anche dal punto di vista etimologico, come accadde a pochi minuti di distanza dalla sua stessa elezione, che non volle dedicare a tutti gli italiani, ma "alle operaie ed agli operai": con la differenza peggiorativa che nel caso della rimozione del quadro di Lepanto non si è reso responsabile di talune omissioni emozionali tutto sommato comprensibili, pur se ingiustificabili, ma di un provvedimento discriminante tanto meno commendevole, in quanto certamente programmato.

    Come fu detto, "non si mente alle proprie radici": nella maggioranza dei casi, è un assunto valido anche quando si accede alle massime cariche degli Stati, e si adottano decisioni di valenza meramente simbolica che non tengono conto del "Volksgeist" prevalente, ma si adeguano a pregiudiziali politiche di parte, senza rispetto veruno per la volontà di maggioranze che hanno il solo torto di essere troppo silenziose.

    Carlo Montani


    GRAMSCI, UN GRANDE UOMO

    Nel settantesimo della morte di Antonio Gramsci, vogliamo dedicare queste poche righe alla memoria di un uomo che seppe vivere e morire per le sue idee.
    Non ci riferiamo ad Antonio, il pensatore e leader comunista, ma a suo fratello Mario dimenticato da tutti perché ebbe la sventura di vestire la camicia nera.
    Più giovane di dodici anni, Mario Gramsci aderì al fascismo al ritorno dalla prima guerra mondiale che combatté con il grado di sottotenente. A nulla valsero i tentativi del fratello Antonio di convincerlo ad abbandonare la fede fascista per aderire a quella comunista, non ci riuscirono neppure le bastonate dei compagni che lo ridussero in fin di vita. Fu il primo segretario federale di Varese, volontario per la guerra d’Abissinia e combattente nel ’41 in Africa settentrionale.
    Dopo l’8 Settembre ’43, quando l’Italia si svegliò col fazzoletto rosso attorno al collo e la bandierina americana in mano, Mario Gramsci, invece di gettare la sua divisa come fecero molti suoi coetanei, continuò a combattere. Ma lo fece dalla parte sbagliata, dalla parte dei perdenti. Aderì infatti alla Repubblica Sociale Italiana. Fatto prigioniero, fu torturato per fargli abiurare la sua fede fascista. Poi fu deportato in uno campo di concentramento in Australia dove le durissime condizioni di detenzione riservate ai militari fascisti non renitenti, cominciarono a minare la sua salute. Rientrò in Patria sul finire del ’45 e subito dopo morì in un ospedale di terz’ordine attorniato solo dall’affetto dei suoi cari.
    Andò sicuramente meglio al celebre fratello Antonio che quando si ammalò in carcere, a causa di una malattia contratta da adolescente, fu scarcerato e, da uomo libero, poté curarsi a spese del Regime in una famosa clinica privata. Non pretendiamo che Mario Gramsci sia ricordato alla stregua del fratello maggiore a cui, giustamente, sono dedicati libri e intitolate piazze - perché al di là del giudizio storico rimane un grande del novecento - ma un piccolo pensiero, crediamo, lo meriti anche lui. Con Mario Gramsci vogliamo onorare tutti fratelli "minori", come il fratello di Pier Paolo Pasolini ucciso dai partigiani comunisti. Dimenticati, questi fratelli d’Italia, perché caddero dalla parte sbagliata.

    Gianfredo Ruggiero
    Presidente del Circolo culturale Excalibur