Il vizio oscuro dell’occidente, di Massimo Fini - Numero 15

SOMMARIO DELLA SEZIONE:

  • IL VIZIO OSCURO DELL’OCCIDENTE, di Massimo Fini
  • LA CULTURA DELLA DESTRA, di Marcello Veneziani


    "L’OCCIDENTE? È TOTALITARIO E INTEGRALISTA"

    Massimo Fini ne "Il vizio oscuro dell’Occidente" attacca la globalizzazione
    In nome della tradizione antimoderna e contro l’Illuminismo settecentesco

    L’Occidente? "Nonostante si definisca, in buona fede, democratico e liberale, è fondamentalista, integralista, totalitario. Perché non concepisce e non tollera l’altro da sé". Il terrorismo globale? "È una conseguenza logica, e direi prevedibile, di un movimento di globalizzazione e di mondializzazione la cui tendenza di fondo è quella di arrivare a uno stato mondiale, a un’unica polizia mondiale, a un unico mercato mondiale e a un unico tipo di individuo: il Grande Consumatore". Massimo Fini "colpisce" ancora. A modo suo, con un libro che è un vero e proprio pugno nello stomaco per tutti coloro che si vantano di essere occidentali e moderni. Non a caso la sua ultima opera si intitola "Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità" (Marsilio, 6 euro). Tesi forti, le sue. Mai banali. Spesso esagerate. Ma, attenzione, non scambiate Fini per un no global, non lo è. Critica il capitalismo, è vero. È feroce contro l’american way of life, è innegabile. Difende i paesi del Terzo Mondo (anche quelli islamici) nel confronto con il "colonialismo occidentale". Ma lo fa non nell’ottica marxista, utopista, pacifista di Agnoletto e compagni. Non guarda alle "magnifiche sorti e progressive" di Casarini e Toni Negri. No, Massimo Fini, quando cerca un modello di riferimento anti-globalizzazione, guarda indietro, ad esempi del passato, non a paradisi progressisti da costruire in terra hic et nunc. Un esempio? Beh, nel suo pamphlet critica il diritto all’uguaglianza nato nell’Illuminismo. Per lui aver codificato un diritto del genere è un "errore psicologico grossolano": dopo averlo proclamato, infatti, le disparità economiche e sociali sono aumentate. Molto meglio, invece, la società divisa in ordini e in caste dell’Europa medioevale. In quel tempo - secondo Fini - "la disuguaglianza era cioè codificata e legittimata. Ciò poneva gli individui al riparo dalla frustazione, dall’invidia, dall’odio". Per compredere meglio il suo elogio alla società medioevale basta andarsi a rileggere un suo libro precedente, "Il denaro ’Sterco del demonio’". In quelle pagine Fini sostiene che "il regime feudale della terra (chiamato anche ’regime delle terre aperte’) è un punto di equilibrio, sofisticato e complesso, fra comunismo e individualismo che potremmo meglio definire come comunitarismo". Insomma, Fini è anticapitalista e antioccidentale in nome della tradizione, dove per tradizione si intende quella ellenistica e cristiana interpretata in chiave antimoderna. Da questo punto di vista Fini è un grande "reazionario". Solo i grandi reazionari, infatti, hanno avuto il coraggio di sottolineare che il Medioevo non è stato solo un’Età oscura, ma un’epoca di progressi politici, economici e culturali. Più che un De Maistre, però, Massimo Fini ci appare come un novello Julius Evola, fatte le debite proporzioni. Come il "Barone Nero", infatti, l’autore del "Vizio oscuro dell’Occidente" afferma che "il liberalismo e il marxismo sono solo due facce della stessa medaglia" industrialista, illuminista, positivista, progressista, modernista ed economicista. Insomma, la vera dicotomia, così come per Evola, sembra per Fini quella tra tradizione e modernità. Una chiave interpretativa interessante, ma che ha molti limiti. Prendere come punto di riferimento i regimi pre-moderni può fornire utili spunti per trovare soluzioni alle distorsioni della moderna globalizzazione? Sembra improbabile, purtroppo. Le teorie economiche aristoteliche, cristiano-tomiste, medioevali prese in considerazioni da Fini (in particolare nel "Denaro") ci appaiono minoritarie, alle volte quasi dimenticate. E ribadiamo il nostro "purtroppo". Sì, perché da quelle idee sarebbe possibile ricostruire un mondo economico più a misura d’uomo. Drammaticamente, però, tutte queste teorie pre-moderne peccano oggi di "impoliticità". Poco potranno influire, cioè, sull’evoluzione della globalizzazione. Speriamo comunque di sbagliarci. Pessimista, in fondo, come ogni buon "reazionario" che si rispetti, appare anche Fini. Come interpretare altrimenti la previsione contenuta nelle ultime righe del "Vizio oscuro dell’Occidente? Si legge: "Non ci saranno guerre di civiltà perché ne rimarrà una sola, la nostra. Ma è all’interno di questa che avverrà lo scontro vero, il più drammatico e violento: fra èlite dominatrici fautrici della modernità e le folle deluse, frustrate ed esasperate, di ogni mondo, che non ci crederanno più avendo compreso, alla fine, che lo spirito faustiano, lo spirito dell’Occidente, opera eternamente il Bene ma realizza eternamente il male". Insomma, per Fini il "rischio" è "che si avveri a livello planetario la profezia che Marx aveva fallito in un solo paese". E cioè una nuova lotta di classe, questa volta tra i paesi ricchi "sempre più ricchi e sempre meno numerosi" e i sempre più numerosi paesi poveri. Sorge spontanea una domanda: ma se la globalizzazione mira a creare "un unico tipo di individuo: il Grande Consumatore" - come sostenuto da Fini - siamo proprio sicuri che la globalizzazione non darà la possibilità anche ai più poveri di entrare nel grande circo del consumismo globale?

    Massimiliano Mingoia


    Marcello Veneziani
    "La cultura della destra", Editori Laterza 2002

    Hanno ancora senso le categorie Destra/Sinistra? Inganniamoci pure, crediamo pure che queste lo abbiano un senso, non foss’altro per aderire in modo veloce, diretto, immediato ad un orizzonte valoriale che altrimenti avrebbe mille distinguo: esistono quindi comunitari (o comunitaristi che dir si voglia) di destra e comunitari di sinistra, liberali a destra e liberali a sinistra, ambientalisti di qua e di là. Se questo è un limite -e lo è-, esso affonda le radici nella rappresentatività politica ed in generale nel sistema politico della rappresentazione del volere popolare: culturalmente infatti la destra e la sinistra hanno dei paletti ben definiti ed identificabili, si rifanno ad una visione del mondo e dell’uomo che in esso è chiamato a muoversi, designano "due mentalità che hanno senso prima della politica ". Sinistra e destra sono state affrontate da Marcello Veneziani nel 1995 -in uno stimolante saggio di risposta a Norberto Bobbio- e "superate", nel 1999 , con la proposizione -rimanendo comunque ancorato allo schema bipolare- della prossima alternativa individuata da comunitari e liberal. Ne La cultura della destra, l’autore sviluppa le idee espresse nei due precedenti saggi, concentrando la sua attenzione su quale cultura oggi possa essere definita di destra e quale cultura oggi la destra debba coltivare. Qual è il nocciolo della cultura della destra? Cos’è cambiato -e cosa dovrebbe cambiare- rispetto alle destre del passato? Quale può essere la sua cultura di governo? Queste tre domande trovano risposta nell’agile volume pubblicato esattamente un anno fa. Ma cosa vuol dire essere di destra oggi? Nella parte iniziale del libro undici tesi cercano di rispondere a questa domanda, precedute da alcune considerazioni molto interessanti. La prima considerazione mette in luce lo squilibrio fortissimo esistente "tra la destra riconosciuta e la destra che si autoriconosce. La destra presunta è largamente superiore alla destra sedicente": la destra vista dagli antagonisti è la categoria politica cha da sempre domina sotto falso nome mentre la destra vista dai protagonisti che la animano è "l’adunata dei vinti di ogni epoca", è la promessa mai realizzata. La seconda considerazione emerge prepotentemente nella quotidianità politica e sociale: in una parola, nella vita di tutti i giorni. La sensibilità popolare nei confronti delle tematiche care alla cultura della destra è largamente maggioritaria, tuttavia questa affinità elettiva non si traduce in affinità elettorale, regredendo numericamente e perdendosi fino a divenire scelta politica minoritaria, definita dall’autore residuale. La terza considerazione è un vero e proprio abuso riduzionista che tende ad identificare la cultura della destra non già come un mondo molto variegato al suo interno che presenta notevoli differenze (talvolta abissali differenze); ma come un blocco monolitico che dai liberali arriva fino ai comunitari, passando attraverso cattolici (radicali o moderati); nazionalisti, individualisti e chi più ne ha più ne metta. Questo libro è molto importante per fare un poco di chiarezza sui naturali confini della cultura della destra, senza forzature di comodo e infingimenti pinocchiari: le undici tesi snocciolano domande, propongono risposte, argomentano lucidamente l’impossibilità -a destra- di ritrovare la stessa organicità culturale degli intellettuali presenti nella sinistra; attraversano il sogno sinistro e la destra realtà, il mito e l’utopia; sondano il terreno pre-politico della cultura della destra tra adesione e rifiuto all’idea di cultura militante fino ad arrivare al mimetismo, cioè quella "destra che nega di essere tale per ragioni di opportunità e di opportunismo, o per rimozione e auto-censura"; approdano da un lato alle geniali individualità espresse dalla cultura della destra e dall’altro "al comune sentire di un popolo, alle sue tradizioni e al patrimonio di conoscenze, saperi, usanze trasmesse", passando per una non velata critica all’organizzazione culturale avente come obiettivo i quadri intermedi della società. La cultura della destra, quindi, si riferisce naturalmente a tradizioni, riti, mentalità, religioni e costumi che hanno permeato secoli e popoli: è quindi improprio "usare la definizione di cultura della destra(…); si dovrebbe piuttosto parlare di cultura comunitaria e tradizionale, ma l’esistenza di una cultura egemonica della sinistra induce a darne una denominazione antagonista". Il concetto di Patria e le diverse interpretazioni che emergono nel panorama intellettuale contemporaneo giocano un ruolo importante nell’odierna società individualista che non protegge le residue precarie forme di comunità (dalle micro alle macro); è necessario smontare la tesi che dallo Stato si faccia la Nazione, contrapponendo a questa la lettura che Gioacchino Volpe nel 1927 dà dell’identità nazionale , affermando che questa -l’italianità- "precede di secoli lo Stato unitario, affonda le radici nella romanità e nel medioevo, per poi assumere forma letteraria e unità linguistica a partire da poeti e scrittori in lingua italiana". Noi italiani riusciamo a leggere scrittori di sette secoli fa, nella stessa lingua in cui essi scrivevano; questo è impossibile a farsi per i francesi o gli inglesi, benché essi abbiano Stati unitari precedenti al nostro: l’unità nazionale è culturale prima che politica, è spirituale prima che istituzionale. Lo stato nazionale che è chiamato a vivere nella post-modernità non è -come alcuni vogliono far credere- in contrasto con le identità locali: di esse si abbevera quotidianamente non le inquina, ne esalta le differenze non le annichilisce, si fa portatore del messaggio per cui il nemico non sono le altrui comunità (leggasi identità locali) ma la negazione di queste (leggasi omologazione globalizzante). Il riconoscimento delle altrui comunità, qualunque esse siano (come quelle degli immigrati); avrebbe dovuto trovare -a mio parere- più spazio nella parte del libro dedicata alle risposte che da destra dovrebbero giungere al fenomeno immigrazione, analizzando i motivi profondi che spingono centinaia di migliaia di uomini ad abbandonare la terra natia: da destra il fenomeno immigrazione è avvertito come uno sradicamento, come una perdita di legami, come una violenza. Tuttavia, questi legami verrebbero in qualche modo ricomposti -benché vi sia la fondamentale assenza del luogo- se l’immigrato trovasse, nella "terra promessa", una comunità di valori, di usanze e tradizioni -non in conflitto con le regole di convivenza civile dei paesi ospitanti- che si rifanno alla comunità di origine. La politica e la comunità si ritagliano un posto al sole anche nella parte del libro dedicata alla globalizzazione in cui l’autore si domanda -e ne dà risposta- se la cultura della destra sia amica o nemica della globalizzizone. La distanza che separa l’approccio culturale comunitario alla globalizzazione è la stessa che lo separa dagli antiglobal che spaccano (o spaccavano) le vetrine: la destra è per antonomasia locale piuttosto che globale, realista più che utopista. In dettaglio, ciò che distingue la cultura della destra dalle spinte ideali incarnate dagli antiglobal, viene evidenziato da tre interessanti valutazioni. La prima è il rifiuto di considerare i noglobal come l’umanità contro i potenti della terra: entrambe le categorie sono minoranze e per di più autoreferenziali. La seconda individua nel moralismo astioso presente nei detrattori della globalizzazione un fattore estraneo alla destra: i giottini tendono ad individuare come male assoluto le multinazionali o le agenzie mondiali, mentre la destra pur non condividendo le aspirazioni utilitariste dei potenti della terra, ha un approccio più realista: "Chi guida un’azienda -osserva l’autore- non può avere come suo unico fine quello di redimere il mondo dalla fame e dalla miseria; piuttosto pensa ai fatturati". È la triste realtà, direbbe qualcuno. Compito della destra tuttavia, è quello di creare un contrappeso politico, culturale, sociale, solidale, comunitario alle spinte globalizzanti in atto: tale contrappeso deve essere impregnato di sano realismo, non accettando quindi le contrapposizioni manichee tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del pianeta, tra Bene e Male. Al contrario deve -per esempio- esaltare le differenze in campo -…abissali- tra Europa e Stati Uniti, puntando sulla italianità, sulla mediterraneità, sull’Europa delle cattedrali, sulle profonde radici continentali. Europa? Si grazie; non come gradino verso la globalizzazione, ma come argine e confine entro cui fondare l’identità europea. Le fondamenta ideali del vecchio continente, non possono (o non potranno) prescindere dalle loro proprie radici cristiane : su questo argomento l’autore mette in evidenza il rapporto fra religione e cittadinanza. Esse non possono essere trattate separatamente, sono il frutto di una sedimentazione secolare di usi, costumi, tradizioni; "(…) nell’orizzonte comunitario non si [può] prescindere dalla religione che ha permeato nel bene e nel male per millenni la cultura, la vita e la storia di un popolo. Fa parte ormai della sua mentalità, della sua tradizione". È certamente possibile -quando non doveroso- analizzare con spirito critico questa osmosi tra vita e religione, ma risulta altrettanto doveroso non dimenticarla; "noi siamo figli di questa storia e di questa fede e non possiamo chiamarci fuori". Convinte, profonde, stimolanti considerazioni emergono dalle riflessioni di Marcello Veneziani che prima o poi -speriamo prima- dovranno confrontarsi con quello che è chiamato l’agire politico: quale continuità fra cultura e politica? Il luogo ove deve svilupparsi il passaggio tra mentalità culturale e pragmatismo politico è individuato in quei siti in cui si forma la coscienza pubblica, in quei luoghi in cui la comunità cresce e assume consapevolezza di sè: scuola ed educazione, beni artistici, culturali e storici, comunicazione e orientamenti pubblici. Il volume si conclude con un Post scriptum tutt’ altro che impertinente quando tra le sue righe osa (?) domandarsi come sia possibile conciliare nello stesso governo la cultura comunitaria e quella liberale. "Che nesso c’è -si domanda l’autore- tra la cultura della destra e il governo Berlusconi?(…) C’è un legame tra la leadership berlusconiana e la tradizione culturale della destra, in senso lato? Che attinenza c’è tra Emilio Fede [o Popper…] ed Ernst Jünger?". Non solo la linea di confine esiste ed è ben marcata ma deve essere in ogni modo evidenziata, esaltata e valorizzata; per nessuna ragione -se non per autolesionismo- dovrà essere annacquata o ignorata. Tanto inchiostro, tante parole…speriamo non inutili.

    Simone Olla