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Siamo un Paese in decadenza? A guardare quello che succede in molti settori sembrerebbe proprio di sì. Non ci entusiasmano le previsione catastrofistiche, gli scenari millenaristici, ma la crisi che il Paese attraversa non ci fa ben sperare. Si dirà: è quello che succede da sempre. E non solo in Italia. La crisi - che etimologicamente vuol  dire “scelta” – non è per forza portatrice di eventi negativi. E’, appunto, una scelta, un progetto per il futuro, che può avere risvolti diversi. Quello che preoccupa, invece, non è la crisi in se stessa quanto la mancanza di un disegno, di una prospettiva futura. C’è crisi nella politica, che si manifesta soprattutto con la disaffezione degli elettori, con il loro astensionismo; c’è crisi nella scuola, che non sembra fornire ai giovani gli strumenti adatti per affrontare il mondo del lavoro; c’è crisi nella famiglia che rivede i suoi ruoli all’interno di essa; c’è crisi nella Chiesa con la mancanza di vocazioni; c’è crisi in generale proprio perché si hanno le idee confuse, quando ci sono, se non addirittura non ci sono visioni della vita. La società del benessere, per quanto in difficoltà negli ultimi tempi, non ha dato luogo a spazi di riflessione, di verifiche critiche sul proprio modo di vivere. L’odierna società, senza voler fare sociologia, è quella dello smarrimento, della mancanza di punti di riferimento e quindi di un andare avanti “alla giornata”, in un divertissement direbbe il filosofo Pascal. E cos’è il divertissement se non una “distrazione” dall’affrontare le proprie debolezze, le proprie infelicità? In uno dei suoi Pensieri, il 168, Pascal dice: “ Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici”. E da qui il ricorso a ciò che può darci consolazione, a ciò che può distrarci dal metterci di fronte all’autentica realtà, a cercare di capire. L’uomo d’oggi sfugge dalla ricerca del senso della vita e si rifugia nei luoghi del divertissement. Ma se ciò può essere umanamente comprensibile, non è accettabile, ieri – al tempo di Pascal- come oggi. Dobbiamo riprendere il nostro essere uomini, la nostra razionalità, interrogarci sul senso della vita e delle nostre scelte, o della mancanza di esse. Diversamente, in tutti i campi, saremo destinati a una sopravvivenza amorfa, grigia, insulsa.

 

V.A.F.

Perché questa è stata la storia della Destra italiana: una lunga traversata nel deserto. Era il 26 dicembre 1946 quando nasceva il Movimento sociale italiano. Una nuova formazione nel panorama politico di un’Italia appena uscita dalla guerra e che raccoglieva attorno a sé i fascisti, i repubblichini, e non solo, scampati all’immane tragedia. Fu un movimento formato anche da molti giovani che si richiamava chiaramente al fascismo: postfascisti, neofascisti, nostalgici. Pure il logo del neonato partito fu interpretato da alcuni come un simbolo che guardava al passato: il basamento nero con la scritta MSI secondo alcuni richiamava la tomba del Duce, da cui usciva la fiamma tricolore, simbolo di una continuità ideale. Inizierà così un cammino di inserimento nell’alveo della democrazia, con tentativi di avere un ruolo sempre più deciso, ma osteggiato ovviamente dalla forze antifasciste. Sarà un percorso che lascerà una lunga scia di sangue tra i suoi militanti, come pure tra quelli della parte avversa, e che alla fine è giunto ai nostri giorni con un governo dove la presenza della Destra è predominante, dove non è corretto parlare di centro-destra, ma di destra-centro. Una lunga traversata nel deserto. Cosa resta di quegli anni, di quelle aspirazioni? Fratelli d’Italia è l’erede del MSI ma si può affermare con tranquilla sicurezza che ha tagliato i ponti con ogni atteggiamento nostalgico: solo la sinistra continua a cercare legami e appartenenze per screditare la formazione di destra. Sin dagli esordi, nei confronti del fascismo, così si esprimeva, con una frase rimasta famosa, Augusto De Marsanich, segretario dal 1950 al 1954 del partito : “Non rinnegare e non restaurare”.  E se alcuni, più che altro fuori dal partito, continuano a fare testimonianza nei confronti del passato, sono relegati ai margini e non hanno rilevanza politica. Ma allora cosa resta del vecchio MSI , il cui simbolo comunque  fa parte del logo di Fratelli d’Italia? Certamente la sua storia. Ma, appunto, la sua storia, non un progetto politico di continuità col passato. Oggi la Destra italiana è forse meno ideologica del passato, ma resta una Destra sociale (e lo ricorda la scritta MSI), interprete di una realtà profondamente mutata rispetto a 77 anni fa. Certo sono cambiati i tempi, le ideologie sono andate in soffitta, il comunismo è morto. Forse sarebbe anche il caso di smettere di chiamarsi Destra quanto piuttosto Conservatori. Non è solo questione di nomi, ovviamente. Ma la Destra di oggi deve rispondere a problemi, situazioni, prospettare visioni di vita che nulla hanno a che fare col passato. O quasi. Resta un’eredità di valori, ma anche una consapevole critica del passato, una condanna – se volete – di un passato che non solo non può ma non deve ritornare, neppure come riferimento. Ma allora, qual è l’eredità, perché questo voler continuare a tenere accesa la fiamma? Il passato, nel bene e nel male, non si cancella: la fiamma è stato comunque il primo tentativo di inserirsi, pur criticandola, nella struttura democratica del Paese, dopo la guerra; ora con piena dignità politica, sottolineando la propria identità, Fratelli d’Italia chiama all’appello i ”patrioti”. Termine desueto, che forse avrà fatto sorridere qualcuno, ma che è carico di una forte valenza morale. E i punti fondamentali del programma di questa nuova Destra discendono da quella visione della vita, ovviamente emendata dagli aspetti legati ad un passato improponibile. Arricchita per altro di temi che la fanno moderna nel senso che risponde ai problemi di oggi: non una riverniciatura, ma una risposta ai quesiti, alle domande dell’oggi.

Si tratta di rinnovare il Paese, di ritrovare la sua anima, di cambiare passo, di risollevarlo. Scrollarsi di dosso tutta l’incrostazione  di questi anni che non ha permesso che si liberassero energie vitali. Per questo nel programma di Fratelli d’Italia si passa da una seria politica di sostegno alla natalità e alla famiglia all’efficiente utilizzo dei fondi del PNRR,  alla più equa politica fiscale, al sostegno alla produttività e al made in Italy, ad un’attenzione particolare al mondo della scuola e dell’università e alla riscoperta del merito, e così via via verso uno Stato sempre più sociale e provvedimenti per una vecchiaia serena, un’attenzione sempre più viva a difesa dell’ambiente. Non vogliamo qui ripresentare il programma di Fratelli d’Italia, chi vuole lo può leggere nel web, ma bisogna sottolineare che è un modo diverso di accostarsi ai vari problemi, rispetto al passato. Tanti sono ancora gli snodi, anche fondamentali, che prospettano un cambiamento se non epocale certamente consistente del nostro Paese. Ecco perché condividiamo quanto detto da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di Fratelli d’Italia, in risposta alla richiesta della senatrice Liliana Segre di rimuovere il simbolo del MSI da Fratelli d’Italia: “la fiamma è un simbolo del secondo dopoguerra che nulla ha a che vedere con i totalitarismi del Novecento. Il simbolo simmetrico alla falce e martello è la croce uncinata nazista e il fascio littorio e tutti e tre sono stati stigmatizzati dal Parlamento europeo da una risoluzione”. Già nel 2019 La Russa diceva: “abbiamo ipotizzato che un domani si possa modificare, anche solo parzialmente, il simbolo di Fratelli d’Italia ma forse l’ultima cosa da fare sarebbe quella di togliere la fiamma che oggi rappresenta, non solo per i figli e i nipoti della destra italiana, il segno indiscusso di una coerenza e di un attaccamento ai valori nazionali e la normale prosecuzione di un impegno politico in cui onestà e coraggio sono stati riconosciuti da tutti”.

La Destra di oggi vuole proseguire la sua scelta di coerenza, che tanto è costata anche in vite umane; ribadisce il suo legame ai valori nazionali, il che non vuol dire nazionalismo ottuso ma difesa della propria identità. La Destra italiana vuole riconquistare il ruolo dell’Italia nell’ambito dell’Europa, con dignità e senza forzature, senza complessi di inferiorità. Con questi riferimenti, con questa tradizione la Destra affronta la scommessa di risollevare l’Italia. Questo rappresenta la fiamma, che è stata la luce che ha aiutato la Destra nella sua traversata nel deserto, per giungere al giorno d’oggi.

Il Barbarossa

Il 12 agosto del 1920 D’Annunzio proclamava lo Stato libero di Fiume.

Era l’ufficialità della sua impresa, iniziata con il suo arrivo nella città il 12 settembre dell’anno prima. Partito da Venezia verso Ronchi, da lì si era diretto a Fiume. Già il percorso per giungere alla città del Carnaro fu un’avventura a forti colori. Si era mosso da Venezia, dalla “Casetta rossa”, dopo una notte con forte febbre, per giungere a destinazione  con alcuni autocarri e 196 granatieri. Ma lungo il percorso altri si aggiungevano sino a quando “a un chilometro dalla barra di confine il generale Pittaluga fermò  D’Annunzio e gli impose di arretrare. Il Poeta gli presentò il petto coperto di medaglie e lo invitò, come Napoleone  al lago di Laffrey, a far sparare su di lui. Il Pittaluga se ne guardò bene e D’Annunzio andò avanti, finché  alla barra incontrò un altro generale, il Ferrero, che tentò di convincerlo a tornare sui suoi passi. Ma un’autoblinda si lanciò contro la barra seguita dall’intera colonna” (Piero Chiara, Vita di Gabriele D’Annunzio, pag. 331). Così iniziava quell’anno e mezzo di Reggenza del Carnaro. D’Annunzio aveva 56 anni.  Fiume, la “Città olocausta”,  venne ben presto battezzata la “Città di Vita” e D’Annunzio assumeva il titolo di “Comandante”. Fu una rivoluzione dei costumi, oltre che un’occupazione di un territorio che si voleva rivendicare all’Italia, nonostante quanto si fosse deciso a Versailles. A mano a mano che il tempo passava altri militari entravano a Fiume per appoggiare D’Annunzio, come il generale Sante Ceccherini e il generale Corrado Tamaio, oltre a due battaglioni di bersaglieri con i loro ufficiali. L’aeronautica  militare aveva fatto la sua prova generale nell’appena conclusa guerra coprendosi di gloria e alcuni piloti diventati famosi giunsero a Fiume. Ma a Fiume, in quei mesi, arrivarono Mussolini  (che si era mostrato alquanto tiepido nei confronti dell’impresa ed era stato rimproverato da D’Annunzio) e personaggi come Marconi e Toscanini, mentre sollecitò anche l’interesse di Antonio Gramsci e del movimento dei dadaisti. Nacque in quei frangenti anche l’idea di costituire una Lega dei popoli oppressi, progetto che poi fallì. Insomma : Fiume era diventato un laboratorio politico, un nuovo modello di città e di vita.  E a Fiume guardavano tutti quelli che speravano in un rinnovamento della vecchia Europa, specialmente dopo la fine della guerra che aveva visto il mutamento radicale della geopolitica europea. Fu l’amalgama di diverse correnti politiche, di diverse tradizioni culturali: dai socialisti ai nazionalisti, ai futuristi, agli anarchici, ai fascisti. Fu la volontà un po’ caotica di chiudere con il passato e di costruire un nuovo mondo senza le regole del vecchio. E così  Fiume vide di tutto: uso di cocaina, personaggi che andavano in giro nudi, provocazioni, sbeffeggiamenti. Un’ irrisione continua e provocatoria dei costumi perbenisti e della morale borghese del tempo. Come ricorda Giordano Bruno Guerri ( “Arte, politica e amore libero. Il vero ’68 fu a Fiume”, Il Giornale, 22 aprile 2018) “D’annunzio si negò all’esperienza omosessuale, che invece imperversava tra incontri saffici e orge tutte al maschile”.

D’altra parte il “dannunzianesimo” come modo di essere, di vivere, di lottare, di amare, con tutte le sue manifestazioni ribellistiche,  era già presente dalla fine del secolo. E già dal 1909 i futuristi avevano fatto piazza pulita del perbenismo, proclamando  nel loro Manifesto : “ 1) noi vogliamo cantar l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità; 2)Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia; 3)La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo  ed il pugno”. Ora quel nuovo mondo sembrava poter avere realizzazione.

Ma l’impresa di Fiume fu anche la “Carta del Carnaro”, di cui si parla in altra parte del giornale.

Però la situazione ben presto doveva precipitare e il 23 dicembre 1920 le truppe italiane attaccarono Fiume. Non senza aver dato vita ad un’ultima beffa, quella di Guido Keller. Personaggio unico, conosciuto come “asso di cuori” nella squadriglia di Francesco Baracca, fiumano della prima ora,  volava nei primi di novembre sui cieli di Roma, gettando sul Vaticano una rosa bianca in onore di San Francesco, sette rose rosse sul Quirinale in onore della regina e … un pitale sopra Montecitorio. Il 12 novembre l’Italia firmava il Trattato di Rapallo che chiudeva la questione di Fiume  e della Dalmazia. Dopo diversi tentativi di risoluzione la vigilia di Natale iniziarono gli scontri, fermati  con una tregua il 25, ripresi subito dopo il 26 quando la nave Andrea Doria colpì il Palazzo del Governo : D’Annunzio “che ebbe qualche calcinaccio in testa, stese subito un nuovo proclama” (P. Chiara, Op. cit,). Era il “Natale di sangue”.

Subito dopo il Comandante si dimise insieme al suo governo. Iniziò la ritirata dei legionari fiumani e D’Annunzio fu l’ultimo a lasciare la città il 18 gennaio. Erano caduti 22 legionari e cinque civili dalla parte del Comandante e 25 militari e due civili dalla parte del governo di Roma. L’impresa fiumana era terminata, il sogno di un mondo nuovo si era infranto. Ma di quella esperienza molto del cerimoniale passerà nel fascismo: dal grido “ eia eia eia,alalà” al saluto ai camerati morti, dal pugnale stretto in pugno e rivolto in alto in segno di saluto all’esaltazione della romanità, all’idea di marciare su  una città per riprendere ciò che apparteneva alla tradizione e alla storia patria. Si è scritto che non furono la stessa cosa, che D’Annunzio non preparò il fascismo. E’ pur vero, comunque, che il perbenismo borghese aveva ricevuto un duro colpo e se il dannunzianesimo non fu un movimento di destra, anzi, è pur vero che segnò la fine di un’epoca, del mondo liberale. La Marcia su Roma non era un evento impossibile.

 

Antonio F. Vinci

Era il 14 febbraio del 1920, cento anni fa, quando alle 11.00, dall’aeroporto di Centocelle, spiccarono il volo i due SVA (la sigla sta per Savoja, Verduzio e Ansaldo) per Tokio, al comando di Arturo Ferrarin e Guido Masiero, insieme ai motoristi Gino Capannini e Roberto Maretto. L’impresa era stata organizzata con due formazioni di aerei: il primo gruppo formato da cinque caccia ricognitori SVA 9 e il secondo con quattro bombardieri Caproni. Ma le cose andarono in modo diverso da quanto previsto e solo i due biplani di Ferrarin e Masiero riuscirono a portare a compimento l’impresa. Fra l’altro a questi due aerei e al loro equipaggio era stato affidato il compito di essere “staffetta” dei restanti aerei, cioè di assistenza. Ma furono solo loro a giungere a destinazione, con il graduale abbandono degli altri durante il percorso.

Per la prima volta si volevano riunire i due Paesi, Italia e Giappone, grazie a queste macchine volanti. Un progetto che era nato nella mente di Gabriele d’Annunzio (impegnato in quei tempi nell’impresa di Fiume) e di Harukichi Shimoi. Vale la pena, qui, ricordare questa figura di intellettuale giapponese. Giunto in Italia per studiare Dante, si arruolò nel nostro esercito durante la prima guerra mondiale e divenne ardito, cioè un combattente di quel gruppo di uomini scelti e sfegatati che tanto fecero durante il conflitto mondiale. Lì insegnò il karate ai suoi compagni di guerra. Partecipò con D’Annunzio all’Impresa di Fiume e anche alla Marcia su Roma! E insieme al Comandante venne l’idea di questo Raid.

Fu un’impresa memorabile, quella di Ferrarin, una trasvolata che durò 109 ore, divise in 30 tappe, in tre mesi. Un’impresa incredibile per quei tempi, con macchine volanti fatte di legno e tela; l’aereo a Ferrarin, fra l’altro, venne consegnato solo la settimana prima ed era pure usato … Le disavventure in volo, le difficoltà, non si fecero attendere per tutta la squadra: l’aereo di Masiero si fracassava nell’operazione di decollo a Canton e pilota e motorista furono costretti a fare un pezzo del tragitto in nave, prima di poter riprendere un aereo. Arrivarono a Tokio un’ora prima di Ferrarin, ma vennero considerati secondi avendo percorso un tratto in treno. Ferrarin e Capannini avevano continuato imperterriti e giunsero a Tokio il 31 maggio in un tripudio di folla festante : duecentomila persone erano lì ad attenderli. Ferrarin venne ricevuto dall’imperatrice Teimei e dal principe Hiroito e il biplano verrà in seguito esposto nel Museo imperiale. L’impresa, condotta senza un supporto logistico, era sul punto di naufragare dopo gli incidenti che erano capitati alla squadra. Fu per iniziativa personale di Ferrarin e Masiero che si decise di proseguire sino al termine e giungere, trionfanti, alla meta.

Non è molto nota la vicenda della scelta di Ferrarin per questa impresa. Il raid doveva essere attuato dalla 87^ Squadriglia aerea nel suo complesso, la famosa “Serenissima”, quella che prese parte al “Volo su Vienna”. Ma alla fine fu deciso di scegliere solo due piloti, Francesco Ferrarin, cugino di Arturo, e Antonio Locatelli. I due piloti rifiutarono di partecipare da soli ed allora vennero scelti Arturo Ferrarin e Masiero.

In seguito Ferrarin, insieme a Carlo Del Prete conquistava con il SIAI Marchetti S.64 nel 1928 il record di distanza in circuito chiuso. Nel luglio dello stesso anno Ferrarin, sempre con l’S.64 e con C. Del Prete giungeva in Brasile, conquistando un altro record, quello in linea retta senza scalo. In seguito a questa impresa ebbe la medaglia d’oro al valore aeronautico. Il 18 luglio 1941 morirà a Guidonia, cadendo con il suo aereo che stava collaudando.

Ci piace ricordare le parole del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Generale di Squadra Aerea Alberto Rosso in occasione della cerimonia commemorativa del 100^ anniversario del raid:

“Cerimonie come queste non vogliono solo ricordare un avvenimento passato e personaggi interessanti che oggi non ci sono più. La storia ci deve aiutare a comprendere quello che è stato fatto in altri tempi ma che può essere d’esempio oggi. Ci deve aiutare, stimolare, guardare umilmente il modo in cui tanti anni fa sono stati risolti problemi difficili, con determinazione, fantasia, grinta e spirito di avventura. Comprendere questo oggi ci aiuta a guardare verso il futuro. Oggi guardiamo verso lo Spazio, che è la nostra nuova frontiera, utilizziamo nuove tecnologie, ma le sfide, concettualmente, son sempre le stesse, così come lo spirito di avventura, la capacità organizzativa, la grinta, la determinazione, l’attaccamento ai valori”.

A.V.

La melassa - Numero 60

Un fantasma si aggira per le contrade d’Italia. Un Paese come il nostro, abituato a saltare sul carro del vincitore, ad essere conformisti, a seguire l’onda, si sta in questi ultimi tempi rivelando sempre più propenso a seguire… l’onda del conformismo dell’anticonformismo! E così assistiamo alla presa di posizione di chi non vuole il presepe per non offendere coloro che professano altre religioni, docenti che per lo stesso motivo non vogliono il presepe a scuola, insegnanti che cambiano le parole della canzoncina di Natale sbianchettando i nomi di “Gesù” e “Maria” e sostituendoli con “stellina” o altro. C’è poi la chiesa di Bologna di Santa Teresa del Bambin Gesù in cui, nell’ambito di un concerto natalizio di canti popolari, hanno inserito “Bella ciao”! Episodi che abbiamo ricordato in altra parte del giornale (sezione Gallarate). E tante altre “provocazioni”. Sembra incredibile che simili atteggiamenti non vengano percepiti da chi li fa come un possibile boomerang. Posizioni di coloro che – pur di farsi notare – strumentalizzano e offendono, loro sì, i riferimenti delle tradizioni religiose del nostro Paese, le nostre tradizioni. Ormai è una corsa a chi la spara più grossa. Nel 2015  la Camera dei Deputati aveva  approvato una proposta di legge, con 331 voti a favore, nessun contrario e un astenuto, che prevedeva la riabilitazione dei soldati fucilati per diserzione, rivolta e ammutinamento. Poi non se ne fece più nulla. E così di questo passo. In questi ultimi tempi abbiamo fatto la corsa per apparire buonisti, abbiamo accolto indiscriminatamente immigrati che non potevamo accogliere, ci stiamo ricreando l’immagine di “italiani brava gente” per sentirci a posto con la nostra coscienza, ma stiamo demolendo il nostro Paese. Un buonismo che cancella ogni identità, ogni tradizione, che nasconde il nostro passato e che distrugge ogni possibile futuro. Questo è l’atteggiamento di chi fin troppo facilmente svende la nostra storia. L’accoglienza, il riconoscimento delle altre culture sono fondamentali per il vivere sociale, sono una crescita per la cultura e i fondamenti di ogni Paese; ma non si può negare la propria cultura, la propria tradizione per smania di modernità, per sembrare, e non essere, al passo coi tempi. Stiamo cancellando volutamente il nostro passato per cadere in una melassa incomprensibile e indistinguibile, che non può portare a nulla di buono. Perché vengono a cadere i punti di riferimento o, peggio, se ne prendono altri che non ci appartengono. E invece è la conservazione della propria identità, delle differenze che permette di costruire il futuro. Tradizione non è un passato polveroso, ammuffito, ma la base su cui costruire il proprio futuro, la base su cui continuare a crescere. Il che, ovviamente, non vuol dire chiudersi a culture diverse ma, nel reciproco rispetto, crescere insieme. E questo vale anche a livello europeo: un’Europa dei popoli, con tutte le sue differenze ma basata sul reciproco rispetto senza la prevalenza degli uni sugli altri. E questo lo si raggiunge non creando l’ “homo europeus”, unico, indistinguibile, con canoni validi per tutti, dall’economia alla cultura all’istruzione, ma conservando le proprie specificità nazionali in un’armonia tra popoli. E’ quando si perde la propria identità che si è più facile preda di chi la sua tradizione non la dimentica e di essa si fa forte di fronte agli altri.

A. V.

Anno di ricorrenze questo 2018. E così ci ricordiamo dell’entrata in vigore della nostra Costituzione repubblicana e delle importanti elezioni politiche del 1948; ma celebriamo anche la fine del primo conflitto mondiale. Ci si ricorda pure, da posizione politiche diverse, del ’68, la rivoluzione studentesca, la contestazione. Avevamo poco più di vent’anni, allora, ma i giovani di oggi poco o nulla sanno di quel periodo, se non hanno avuto l’opportunità di studiarlo a scuola. “Formidabili quegli anni” (titolo di un libro rievocativo scritto da uno dei leader carismatici della contestazione studentesca, Mario Capanna), vennero chiamati. Non tanto formidabili vengono ritenuti da altri. Fra questi ultimi Marcello Veneziani, maître à penser della Destra italiana. Filosofo, saggista, giornalista di notevoli capacità, Veneziani è noto anche per uno stile tutto suo, fatto di giochi di parole, calembour ironici che, capovolgendo e destrutturando parole dà inaspettati significati e contenuti, riflessioni e osservazioni non immediatamente evidenti. Qualche tempo fa ha pubblicato per i tipi de “il Giornale” un volumetto, agile quanto pungente, dal titolo sintomatico: 68 tesi contro il ’68. L’anno maledetto che dura da cinquanta. 68 punti in cui, sinteticamente punto per punto, come in un dizionario filosofico ragionato, l’Autore stigmatizza quel movimento che affascinò un’epoca, ma che suscitò parimenti reazioni e avversioni. Radicale la sua condanna dal punto di vista politico, essendo fallito come rivoluzione, non riuscendo a cambiare nessun assetto di potere. Trionfante, invece, dal punto di vista del modus vivendi, sconvolgendo il modo di pensare di agire, di essere, dalla scuola alla famiglia, dal lavoro ai rapporti generazionali. Una rivoluzione dei costumi prima di tutto. I settantenni di oggi ricorderanno, anche se non hanno partecipato in modo attivo alla contestazione, che fu l’epoca in cui imperavano barbe e capelli lunghi, un nuovo linguaggio dei giovani, incomprensioni fra generazioni. Si contestava tutto in nome dell’ “immaginazione al potere”. E fu una nuova ondata di giovanilismo: largo ai giovani fu un po’ l’emblema del tempo, sconvolgendo tradizioni e mentalità... Fu, quindi, un voler cancellare il passato, la storia, come qualcosa di vecchio. Veneziani vede nel movimento dei 5 Stelle i successori del ’68, nella volontà distruggitrice del passato, nella presa in giro degli avversari, nella volontà decisionale della Rete, che sarebbe la versione moderna delle assemblee studentesche. Verrebbe da pensare che anche il futurismo ebbe un simile, ma non uguale, atteggiamento: il futurismo fu la più importante corrente culturale del ‘900. Fu un’esaltazione della velocità, del dinamismo, della giovinezza e dopo la furia demolitrice del “passatismo” creò una corrente culturale che permeò di sé letteratura, teatro, musica, scultura; persino la cucina. Il futurismo creò, non distrusse solamente. Il ’68 no. Il ’68 nella sua furia devastatrice ha creato attorno a sé il deserto, senza aver lasciato idee o autori di riferimento. La sua eredità è negativa, perché lo svecchiamento diventava dimenticanza della storia e della tradizione; la legittima opposizione all’autoritarismo diventava opposizione all’autorità. Lo slogan “vietato vietare” affascinava i giovani di allora, ma il mio professore di storia contemporanea all’Università ribadiva: “vietato vietare di vietare”, facendoci riflettere sulle radici dell’autoritarismo.
Li vediamo ora i figli dei contestatori del ’68. Li vediamo oggi, per esempio, genitori a scuola, molte volte persi di fronte ai loro figli che non sanno più educare; privi non dico di valori ma di punti di riferimento. Con il ’68, nato come una stagione di impegno, politico e sociale; un movimento che avrebbe voluto cambiare il mondo; una stagione che prometteva tanto, con il ’68 abbiamo avuto alla fine in eredità il disimpegno politico e sociale dei giovani, un’estraneità al mondo che ci circonda, un capovolgimento introspettivo, dove conta solo vivere nel proprio microcosmo in cui l’interlocutore è il cellulare o il pc. Certo non è colpa solo del ’68, ma tutto è iniziato da lì.
Barbarossa

Da sempre ci diciamo che l’Italia non ha ancora fatto i conti con la storia. Con la storia più recente, si intende. E lo si dice da parte di molti, da destra come da sinistra, in occasione delle vicende più varie, a giustificazione – va detto – della propria tesi. Così, per l’insorgere di manifestazioni, atteggiamenti o riti che si richiamano al fascismo o, più recentemente, al rientro della salma del re Vittorio Emanuele III in Italia, l’appello è “fare i conti con la storia”. Ma lo stesso vale per il mancato riconoscimento della tragedia delle Foibe da parte della sinistra comunista più intransigente o addirittura negazionista. Quando ci si trova di fronte a situazioni che non si accettano, che si vogliono rifiutare, ma che emergono improvvisamente, si fa appello a “fare i conti con la storia”, una volta per tutte. E qui si richiama quanto fatto dalla Germania e dal Giappone, che i conti con la storia li hanno fatti, sottolineando la diversità del paese Italia.
Ma “fare i conti con la storia” molte volte vuol dire, da parte dei richiedenti, far tacere le ragioni dell’avversario; negare dignità di parola a chi la pensa diversamente. O semplicemente negare la verità dei fatti.
La storia, non diciamo nulla di nuovo, la scrivono i vincitori; ma talvolta emerge un’altra lettura della storia, come un fiume carsico che prima o poi viene alla luce. Allora fare i conti con la storia diventa quindi necessariamente non accettare la storia “ufficiale” ma compiere una “revisione”. Revisione non è revisionismo. Il “revisionismo” ha una accezione negativa perché nasconde terribili verità, negando anche la realtà dei fatti. La revisione è il coraggio delle idee, il coraggio di dire che si è sbagliato, che forse le cose non stavano così come si era detto sino ad allora.
Insomma “fare i conti con la storia” non è semplice e talvolta nasconde verità per convenienza politica e per opportunità.
L’Italia non riesce a fare i conti con la propria storia più recente perché non riesce a contestualizzare i fatti. Siamo un popolo, per quanto può valere un discorso così generalista, che non ha il senso dello Stato, che scrive sulla propria bandiera “tengo famiglia”, che si divide in Montecchi e Capuleti, in bianchi e neri, guelfi e ghibellini, un popolo che proclama “Franza o Spagna purché se magna”, che – diciamolo francamente – cambia bandiera fin troppo facilmente e preferisce la polemica chiassosa alla serena valutazione, al riconoscimento delle ragioni dell’altro. Ma è anche un popolo che ha saputo dare prova di grandi eroismi in guerra come in tempo di pace; atti di coraggio individuale riconosciuti dal nemico; imprese che sono rimaste nei libri di storia. Ma, appunto, il più delle volte atti individuali, anche se numerosi. Non abbiamo il senso dell’appartenenza, della comunità. Eppure la civiltà occidentale, nata in Grecia, qui si è sviluppata, qui ha messo le radici del diritto, qui nasce l’orgoglioso “civis romanus sum et latine loquor”. Oggi, per riconoscere ufficialità all’Inno nazionale, all’Inno di Mameli, abbiamo impiegato 70 anni!
Si temono, dunque, il rinascere del fascismo, gli atteggiamenti inneggianti al passato (e ormai morto) regime, il pericolo per la democrazia. Ma c’è da chiedersi: quanto si è veramente fatto sulla strada della democrazia? Fermo restando che la condanna della dittatura – di ogni dittatura, però - deve essere chiara e inequivocabile, vogliamo chiederci perché la democrazia, o meglio, la gestione della democrazia desti ancora, dopo settanta anni di vita, tante riserve? Il cosiddetto populismo nasce perché è una moda o perché la gente è insoddisfatta da una democrazia gestita in modo sempre più lontano dalle esigenze autentiche del popolo? Il fascismo va capito nel suo tempo, va storicizzato, non “scusato” ma compreso. E venne compreso perfino dai suoi avversari, sia interni che stranieri. Certo è stato un male per lo sviluppo della democrazia, ma forse il male minore. Per vent’anni. La democrazia in Italia ha invece settanta anni di vita, ma il Paese è nelle condizioni in cui lo vediamo quotidianamente: sfiduciato, sempre più lontano dalla politica, riproponendo quella scissione già nota di “paese reale e paese legale”, sempre più rassegnato; rassegnato alle tasse, ai disservizi, all’immigrazione incontrollata, al declino. E’ proprio perché crediamo nella democrazia che dobbiamo fare, veramente, i conti con la storia una volta per tutte, dicendo BASTA. Basta con le recriminazioni, con il rinfacciarci reciprocamente un passato che è passato, che non va dimenticato, certo, ma che non deve neppure essere alibi per il presente, né condizionare il nostro futuro.
A. F. V.

Il 22 ottobre in Lombardia si vota. E pure in Veneto. Gli elettori sono chiamati ad esprimersi su un quesito grazie ad un referendum consultivo. Questo tipo di referendum, come dice la stessa parola, è consultivo, cioè non vincola i governanti, ma indubbiamente ha un grande valore perché esprime la volontà popolare, di cui non si può non tenere conto.

Questo il quesito sottoposto agli elettori :

“Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”

Non si tratta,quindi, di secessione, nè di fine dell’unità nazionale, ma della richiesta di fare anche della Lombardia, e del Veneto, una Regione autonoma.

Ma qual è la “specialità” della Lombardia? Lo si apprende leggendo,nel sito della Regione Lombardia, la Mozione concernente il “referendum per l’autonomia della Lombardia : competenze e risorse” del 13 giugno.

Noi vogliamo, però, qui prendere in considerazione un agile libretto, pubblicato da “il Giornale”, a firma di Giuseppe Valditara : Lombardia felix. Giuseppe Valditara, professore ordinario di Diritto privato romano, studioso di federalismo, senatore della Repubblica, non ha solo presentato dati eloquenti che fanno della nostra regione la Lombardia felix, ma ha anche evidenziato la storia dell’efficienza della sanità lombarda. Ricorda,infatti, quanto scriveva Carlo Cattaneo nelle Notizie naturali e civili su la Lombardia, che nel 1844 contava in  regione 72 ospedali ed altri in via di edificazione, ospedali per tutti “senza patronato, senza favore, alla sola condizione dell’infermità e del bisogno”.In quegli anni si curavano ben 24.000 malati l’anno, quanti se ne curavano a Londra. Fra i tanti primati della terra lombarda Cattaneo ricordava l’elevato numero di ingegneri e l’alto tasso di alfabetizzazione. Ma è il confronto con altre situazioni del mondo d’oggi che ti lascia spiazzato. Scrive Valditara: “un operaio metalmeccanico lombardo, un insegnante lombardo,un poliziotto, un tramviere, un impiegato di banca che lavorino in Lombardia hanno all’incirca lo stesso stipendio di chi lavora, per esempio, in Calabria o in Sicilia, con un costro della vita completamente diverso: Milano è più costosa di Amsterdam, di Berlino, o di Stoccarda; Bergamo è più cara di Lione” (pag.15). Ma dove si tocca veramente con mano la situazione della Lombardia rispetto al resto del Paese è nel residuo fiscale annuo: “…ogni cittadino lombardo (neonati e ultracentenari compresi) dà in solidarietà al resto del Paese oltre 5.500 euro all’anno”(pp. 25,26). Eppure la Regione Lombardia ha livelli di efficienza e di prestazione di servizi superiori ad altre regioni, con una spesa pro capite nettamente inferiore. Insomma il modello lombardo vince, alla grande, nonostante abbia il 23% in meno, rispetto alla media nazionale, di dipendenti pubblici.

La conclusione cui giunge Valditara è chiara e ineccepibile : “Occorre in definitiva un nuovo patto fra italiani, un nuovo patto fra Nord e Sud, una nuova unità nella diversità. L’Italia non è la Danimarca, eguale da Odense a Copenhagen. La nostra identità si caratterizza per le straordinarie differenze nel contesto di alcuni valori comuni. Lo slogan unificante sia :”A ciascuno secondo le sue necessità”, più o meno autonomia a secondo del bisogno e delle condizioni dei diversi territori, rifiutando in ogni caso l’egualitarismo e il centralismo di matrice giacobina e consentendo a qualunque regione di scegliere come governare il proprio destino.

Questa è la vera priorità per la Lombardia e in definitva per la crescita e il futuro dell’Italia intera” (pag. 47).

Il Progetto autonomistico, se ben strutturato, può essere la salvezza per questo nostro Paese che pare andare alla deriva. In altri tempi – siamo sinceri – avremmo temuto che discorsi simili avrebbero portato alla frantumazione dell’unità nazionale. Ora, di fronte alle crisi di ogni genere che sembrano caratterizzare la nostra epoca, in un Paese dilaniato e diviso da mille difficoltà, incomprensioni, atteggiamenti individualistici, proprio un’autonomia consapevole e responsabile potrebbe essere l’unica via di salvezza.

Il Barbarossa

Chi è Barbarossa?

L'ombra di Federico I di Hohenstaufen, il Barbarossa, appunto, si aggira tra le nostre contrade , da quando a Legnano venne sconfitto dalle truppe dei Comuni alleatisi nella Lega lombarda. L'imperatore aveva cercato di difendere le sue terre da quei Comuni che volevano la libertà, aveva cercato di tenere saldo l'Impero, ma non poteva andare contro la storia. Aveva accarezzato il lungo sogno di restaurare il... Continua >>

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