L'ultimo cavaliere - Numero 46

In concomitanza con l’anniversario della seconda redenzione di Trieste, che ricorreva il 26 ottobre, è mancato Delfino Borroni, ultimo reduce italiano della Grande Guerra ed ultimo Cavaliere di Vittorio Veneto (l’onorificenza che era stata istituita nel 1968 per "esprimere la gratitudine della Nazione" a tutti coloro che avevano combattuto per almeno sei mesi). La grande stampa, nella migliore delle ipotesi, gli ha dedicato un trafiletto, ma non sembra giusto voltare una pagina di storia, non soltanto sul piano simbolico, senza alcune riflessioni. Borroni, che era nato nel 1898, era stato arruolato nel corpo dei Bersaglieri ciclisti, e si era impegnato in aspri combattimenti sull’Altipiano di Asiago, sul Pasubio ed a Caporetto, restando coinvolto nella ritirata fino ad essere catturato dagli austriaci, ma riuscendo a fuggire ed a riunirsi con un battaglione di cavalleria, fino a vivere in prima persona l’epopea della Vittoria. Dopo la guerra, riprese il suo tranquillo mestiere di meccanico, e poi venne assunto in qualità di macchinista dall’Azienda tranviaria milanese, ma coltivava con passione vivi ricordi di combattente, che oggi si trovano anche in rete. Caporetto, narrava Borroni, era stata l’esperienza peggiore della sua guerra, con il freddo e la fame che facevano da padroni, e come se non bastasse, col frastuono incessante delle granate, e talvolta, con gli attacchi nemici supportati dal gas. Durante la battaglia dell’ottobre 1917 rischiò di morire, quando fu colpito al piede da un proiettile, ma venne salvato dal provvidenziale spessore dello scarpone, mentre due commilitoni, proprio accanto, rimasero sul campo. Delfino amava la vita, e chiedeva al superiore perché mandasse proprio lui, che era il più giovane, ad ispezionare il terreno strisciando sotto il filo spinato, ma ubbidiva in silenzio, quando gli veniva risposto che "tutti gli altri hanno figli". Non meno toccante è il racconto della prigionia e della rapida fuga. Borroni protestava perché voleva scrivere alla famiglia, priva di sue notizie da sette mesi, ma l’ufficiale austriaco gli disse che non tornava a casa da dieci anni, salvo dargli, subito dopo, un foglio ed una penna. Più tardi, alla fine di un giorno di marcia, accadde che la guardia rumena si addormentasse vinta dal sonno, permettendo a Delfino di fuggire e di incontrare non meno fortunosamente il reparto italiano che provvide a raccoglierlo. Oggi, l’ultimo Cavaliere è passato alla storia perché ha avuto la ventura di sopravvivere più di tutti, e di raccontare con straordinaria lucidità, anche negli ultimi tempi, e persino in televisione, le proprie esperienze belliche. Con la sua scomparsa, la Grande Guerra si trasferisce in una dimensione "universale", e se così può dirsi, in un patrimonio etico, politico e culturale ormai definitivo, in cui le residue discussioni di strategia militare vengono circoscritte alla sfera accademica (ormai si può dire che Caporetto fu una grande sciagura, ma nello stesso tempo, occasione di riscatto, perché indusse una reale unità di menti e di cuori, senza dire del vantaggio determinante offerto dalla riduzione del fronte). Una parte significativa della storiografia ha visto nella Grande Guerra l’ultimo episodio del Risorgimento, con la liberazione di Trento e Trieste dal dominio austriaco e da un regime che non esitava ad utilizzare la forca quale strumento di coercizione dell’irredentismo, come era accaduto nel caso emblematico di Guglielmo Oberdan, condannato a morte dopo un processo alle intenzioni di natura medievale. Tuttavia, nella memoria collettiva resta non meno viva la pregiudiziale del Papa Benedetto XV nei confronti di "un’inutile strage", e la consapevolezza dei sacrifici davvero sovrumani che furono richiesti ai combattenti, e di cui quelli di Borroni sono soltanto un esempio, esaltato dal fatto che riguarda l’ultimo superstite, e che nelle sue parole, come in quelle di tanti altri, non è stato mai possibile cogliere alcuna polemica né alcun risentimento. Nel bene e nel male, la Grande Guerra appartiene ad un’Italia che ebbe modo di scoprire nel sacrificio, nella cooperazione e nell’unità indotta dall’esperienza di trincea i valori di un beninteso patriottismo. Al di là delle sue contraddizioni e dei suoi dolori, questo rimane un punto fermo: i quattro anni intercorsi fra il 24 maggio 1915 ed il 4 novembre 1918, o fra l’olocausto di Riccardo Di Giusto ed Alberto Riva di Villasanta, il primo e l’ultimo Caduto, furono più importanti, al fine di rendere coese le coscienze e le volontà, che non il mezzo secolo già passato dalla proclamazione dell’unità. Grazie ai combattenti di tutte le armi della Grande Guerra, accomunati nell’omaggio alla memoria dell’ultimo Cavaliere, l’Italia ha preso coscienza compiuta ed irreversibile, dalle Alpi al Mediterraneo, della sua realtà morale di Nazione e di Stato, ancor prima che politica. Con buona pace degli amici del giaguaro, vecchi e nuovi.


Carlo Montani