Come prima - Numero 50

SOMMARIO DELLA SEZIONE:

 



Come prima

Qualora si voglia "che tutto rimanga com’è", secondo la classica affermazione del Principe di Salina, il Gattopardo dell’omonimo romanzo, "bisogna che tutto cambi". Questo tagliente aforisma non esprimeva il pensiero di una vecchia aristocrazia logorata dalla legge del tempo come quella borbonica, ma esternava un sentimento popolare tuttora diffuso e convalidato dall’esperienza, specialmente in Italia, dalle Alpi alla Sicilia. In effetti, quanto vi accade da due terzi di secolo ne costituisce una dimostrazione probante. In campo politico, i Governi della "solidarietà nazionale" o della "non sfiducia" andarono a sostituire quelli del "progresso senza avventure" o delle "convergenze parallele", con esclusione di traumi che non fossero puramente semantici; più tardi, con la stagione di "Mani pulite" parve giunto il momento di tornare ad un’antica pregiudiziale etica, ma alla resa dei conti il sistema ha finito per avvitarsi in un contesto da avanspettacolo, se non anche da nichilismo elevato a sistema. Sono soltanto esempi, ma parecchio significativi. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Il debito pubblico italiano ha raggiunto un’incidenza sul prodotto interno lordo largamente superiore alla media europea e risulta pari al doppio di quanto statuito nel trattato di Maastricht, cosicché ogni cittadino è indebitato per una cifra più alta del suo reddito medio, nella misura del 50 per cento. I tempi di Quintino Sella o di "quota novanta" sono una pallida reminiscenza riservata agli specialisti. La recessione morale è ancora più grave di quella economica: oggi, troppi giovani coltivano soltanto sogni di facile successo nel mondo dei calciatori o delle "veline", mentre diverse persone mature trovano un impegno a tutto campo nella finanza d’assalto e qualche volta nell’usura. Intanto, l’uso della droga seguita a crescere alimentando quote sempre più ampie di delinquenza organizzata, e non solo di quella proveniente dall’immigrazione clandestina. La "dittatura del consumismo", cui si fanno autorevoli e di ????R?ffusi riferimenti, induce modelli di comportamento che hanno "gradualmente conquistato l’aspetto intellettuale della vita psichica" con l’apporto decisivo della "seduzione pubblicitaria trasmessa dai mezzi di comunicazione di massa". Sembra congruo affermare che tutto stia cambiando, ma chi consideri la realtà dei fatti e prescinda dalle apparenze dovrà convenire che oltre le etichette esteriori nulla è cambiato. Basti dire che l’Italia ha ripudiato la guerra nella solenne affermazione della sua Carta costituzionale, ma partecipa da anni ad operazioni belliche dell’Occidente "civile" come quelle svolte in Iraq od in Afghanistan e minacciate in Iran, cercando un’improbabile "esportazione" di democrazia (o presunta tale) e mettendo a forte rischio la vita dei suoi figli migliori. Basti aggiungere che gli Istituti di credito, compresi quelli a matrice pubblica, continuano a perseguire strategie di profitto massimizzato lontane più di prima dalla trasparenza e dal ruolo di supporto allo sviluppo che sarebbe di loro conclamata competenza. Basti concludere rammentando che i sindacati, lungi dall’impegnarsi in programmi di occupazione, sono arroccati su posizioni di tutela del privilegio e sostanzialmente inclini alla conservazione, che un acuto osservatore della realtà storica e della psicologia umana come Gaetano Salvemini aveva definito, già da tempi lontani ed insospettabili, come comportamento ricorrente, tipico di chi "si trova benone come sta". In questo clima da basso Impero, reso effervescente da spettacoli televisivi di bassa lega e da vicende di "gossip" che hanno funzioni analoghe a quelle degli antichi giochi del circo rivolti a tenere buona la plebe, non sorprende che nulla cambi e che discriminazioni e prevaricazioni siano sempre all’ordine del giorno. Per citarne qualcuna, gli infoibatori ex jugoslavi continuano a percepire la pensione dell’INPS ed a farsi beffe di una giustizia italiana mai tanto latitante come quella applicata (si fa per dire) nei loro confronti dichiarando il non luogo a procedere per una fantomatica incompetenza territoriale; e gli ultimi veterani della RSI, in spregio agli auspici di conciliazione a buon mercato, continuano a vedersi negare qualsiasi riconoscimento morale, giuridico ed economico da parte di una volontà politica legata tuttora alla tesi "partigiana" secondo cui avrebbero combattuto sul fronte "sbagliato". L’Italia è fedele al rango di Stato a sovranità limitata acquisito 65 anni or sono e pervicacemente mantenuto con dimostrazioni talvolta surreali come quella del 1975, quando la stipula del trattato di Osimo coincise con la rinuncia senza contropartite ad una quota importante di territorio nazionale: la zona "B" del mai costituito TLT. In proposito, è appena il caso di rammentare che, se avesse avuto fondamento giuridico la tesi di quanti sostennero che la cessione aveva avuto già luogo col Memorandum di Londra del 1954 (ciò con particolare riferimento alle forze della sinistra ivi compresa quella democristiana che faceva capo al Presidente Moro); non ci sarebbe stato bisogno di sottoscrivere un patto vergognoso come quello firmato da Mariano Rumor a Villa Leopardi, in un’atmosfera carbonara. Si potrebbe pensare che l’affievolimento della sovranità sia stato un effetto della resa incondizionata pretesa dagli Alleati nel 1943 in modo obiettivamente miope, perché il risultato - come Andreas Hillgruber ha posto in ottima evidenza - avrebbe potuto essere "ottenuto anche senza una simile esasperazione degli obiettivi di guerra"; ma non sfugge a chicchessia come ben diversa sia stata la capacità reattiva a medio e lungo termine degli altri Stati che subirono la stessa sorte, quali Germania e Giappone. Del resto, Eisenhower affermò che l’armistizio, per il modo in cui venne gestito dal Governo Badoglio, fu uno "sporco affare", ed Alexander aggiunse che l’Italia lo aveva chiesto non già per avere esaurito la sua capacità bellica, ma per affrettarsi a "salire sul carro del vincitore". Anche Bettino Craxi, il solo premier che seppe confrontarsi duramente con gli Stati Uniti in occasione della vicenda di Sigonella, si rese responsabile di scelte opinabili sul piano della "Realpolitik" (a parte il contributo decisivo che il suo Governo diede al disastro economico italiano) quando fece riparare a Belgrado il terrorista Abul Abbas, responsabile del dirottamento della nave da crociera "Achille Lauro" e della proditoria uccisione di un turista americano, per giunta invalido, non senza avere dichiarato "partner di assoluta preferenza" una Jugoslavia già allo sfascio, che nel giro di pochi anni sarebbe crollata come un castello di carte. Gridare allo scandalo sarebbe corretto ma inutile, essendo di solare evidenza che in Italia prospera come non mai il "particulare" di Francesco Guicciardini e che la "salvezza dello Stato", fine ultimo dell’azione politica teorizzata dal Segretario fiorentino - il sommo Nicolò Machiavelli - vive nella sfera dell’utopia, a prescindere dai dubbi sull’esistenza stessa dello Stato. Nondimeno, chi "rifletta con mente pura" e faccia proprio il grande sogno del Vico, ha tutte le buone ragioni per dissociarsi da quanti sostengono che esisterebbero cambiamenti di grande spessore all’insegna di un presunto progresso morale, politico e spirituale praticamente indefinito al pari di quello tecnologico, l’unico realmente vero. L’attualità del Principe di Salina e della sua realistica interpretazione di uomini e cose è destinata ad avere un lungo futuro.

Carlo Montani



IMMIGRAZIONE E COOPERAZIONE

Gli eventi calabresi del gennaio 2010, in cui il problema dell’immigrazione si è manifestato con evidenza drammatica, anzi tutto nell’incapacità politica di governarlo in modo tempestivo e funzionale, hanno assunto caratteri di guerra fra disperati: da un lato, qualche centinaio di extra comunitari africani, sfruttati dalla mafia locale nel lavoro di raccolta della frutta rigorosamente "sommerso" e condannati ad una sopravvivenza sub-umana messa comunque in forse dalla crisi degli agrumi; dall’altro, la cittadinanza locale, che pur avendo accolto gli immigrati in modo assai tollerante ed in qualche caso fraterno è stata oggetto di violenze gratuite ed immotivate da parte dei "neri" senza che le forze dell’ordine intervenissero se non a posteriori, quando hanno eseguito le disposizioni per il trasferimento degli extra comunitari negli appositi centri di altre Regioni. Il risultato, paradossalmente, è stato solo quello di spostare il problema in altri contesti geografici, tanto più che la maggioranza di quegli immigrati, almeno in base alle rilevazioni approssimative della prima ora, non avrebbe potuto essere oggetto di espulsione immediata, in quanto munita di un regolare permesso di soggiorno. Assieme alla Sicilia, la Calabria è la Regione italiana con il più alto tasso di disoccupazione, che in alcuni distretti supera la media nazionale di almeno tre volte. In queste condizioni, non c’è dubbio che una forte presenza di manodopera straniera costituisca un problema socio-economico più urgente perché toglie occasioni di lavoro, sia pure precario, alla gente italiana e sposta verso il basso l’equilibrio tra domanda e offerta di "braccia", già sperequato a favore dei padroni e dei loro caporali. Tuttavia, si deve sottolineare alla stregua di un fatto certamente civile l’esistenza di uno spirito di cooperazione durato a lungo, sino a quando le violenze degli immigrati anche nei confronti di donne e bambini, ben documentate dai mezzi di comunicazione informativa, non hanno indirizzato il comportamento collettivo verso una legittima difesa in cui si sono volute cogliere espressioni razziste inesistenti: caso mai, si sarebbe dovuto parlare di una protesta dettata dalla disperazione e dall’esasperazione, rivolta non soltanto verso i "neri" ma prima ancora verso i loro sfruttatori e verso uno Stato quasi latitante. Gli immigrati hanno diritto al rispetto che si deve ad ogni persona umana, ma tutti debbono comprendere che il mondo sviluppato ed in primo luogo l’Italia non potrebbero programmare un’accoglienza illimitata se non mettendo a rischio la loro struttura economica e sociale, ed alla lunga, anche l’ordine pubblico. Sono stati versati fiumi d’inchiostro sulla necessità di interventi preventivi nei Paesi d’origine, anche nell’ambito del fondamentale e prioritario controllo demografico, ma quanto si va facendo a livello di cooperazione internazionale trova vincoli crescenti nelle strozzature istituzionali, comprese quelle del sistema ONU, e nella scarsa propensione del mondo sottosviluppato a promuovere dopo l’avviamento un’efficace produttività e redditività degli investimenti: motivo non ultimo, ora accentuato dalla crisi, per cui le quote di PIL che diversi Paesi avanzati rendono disponibili per la cooperazione si conformano agli impegni con diffuse vischiosità. Occorre, in questa ottica, che l’immigrazione venga pianificata in modo razionale, non solo a livello legislativo, come si è cercato di fare in Italia, ma anche - e soprattutto - in chiave esecutiva. Una teoria separata dalla prassi ed una normativa sfornita di sanzioni od incapace di applicarle sono condannate al fallimento. Da questo punto di vista, i fatti di Calabria hanno fatto suonare un campanello d’allarme che deve essere ascoltato, traendone l’impegno ad agire prima che l’evento si ripeta altrove e finisca per sfuggire di mano. La necessità di tutela della cittadinanza locale non può essere posta in discussione perché riguarda il "prossimo" più immediato e talvolta più debole, come si è visto per le donne ed i bambini oggetto della recente violenza, con gli extra comunitari in possesso di licenze d’aggressione tanto inopinate quanto assurde. Invece, non è pertinente, se non sul piano etico e su quello storico, richiamare alla memoria le pagine più dolorose della nostra emigrazione, a cominciare dalle allucinanti quarantene davanti a Nuova York e dai numerosi "respingimenti" effettuati dalle autorità statunitensi; per continuare con la tragedia di Aigues Mortes nella vicina Francia, dove una decina di lavoratori italiani delle saline vennero trucidati nel 1893 da una folla "inferocita" perché si erano dovuti accontentare di un salario inferiore a quello della manodopera locale; e per finire col disastro di Marcinelle, massimo dramma della storia mineraria europea, che in tempi relativamente recenti, sulla carta più rispettosi dei diritti individuali, e più precisamente nel 1956, vide il sacrificio di 139 nostri minatori (assieme a quello di oltre cento operai di altra nazionalità); colpevolmente "scambiati" dal Governo italiano con il carbone del Belgio. Ogni epoca richiede di essere oggetto di valutazioni conformi al cosiddetto spirito del tempo. Non c’è dubbio, in proposito, che l’immigrazione attuale fruisca di tutele un tempo impensabili, certamente dovute in conformità alla normativa europea ed a quella italiana in materia di diritti umani, ma proprio per questo è implicito che debba comportarsi, parallelamente, alla stregua dei doveri corrispondenti e che ogni comportamento contrario vada prevenuto o represso con la necessaria tempestività.

Carlo Montani