Tempo di riscatto - NUMERO 62

Fine dell’anno, tempo di bilanci. C’è poco da fare bilanci in un anno dominato, stregato dal Covid. Tutto esce falsato, ridimensionato, come in quegli specchi che allungano l’immagine. Quest’anno appare trasfigurato come il volto nell’ ”Urlo” di Edvard Munch. La pandemia, ci si chiede, ci renderà più buoni, migliori, o no? Certamente ci sta rendendo più incerti, più scettici. La pandemia e la gestione dell’emergenza sanitaria, parliamo dell’Italia e del suo governo ovviamente, ci ha reso più precari, più deboli psicologicamente. Restare in casa per settimane, oppressi da una cappa mortifera di paura, ci ha reso più fragili. Nelle persone più anziane, ma non solo, è questo un periodo che sembra prefigurare la morte, l’attesa della morte: stare necessariamente a casa per proteggersi, non vedere nessuno dei tuoi cari, uscire solo per i bisogni più necessari, ha lasciato un segno di precarietà che difficilmente riusciremo a scrollarci di dosso. Chi deve, chi può, lavora da casa. Ma non è lo stesso, si dice. Certo abbiamo perso le abitudini quotidiane, anche le più banali: uscire per prendere il caffè, fermarsi dal giornalaio, correre per andare al lavoro, abbracciare i nipoti, incontrarsi tra fidanzati. Eppure proprio per questa costrizione abbiamo forse imparato ad apprezzare quelle piccole cose di ogni giorno che ci sembravano così ovvie, così scontate. Forse, nel mare del dolore e delle sofferenze, delle privazioni e delle morti che questa pandemia ha generato e continua a generare, forse questo è stato l’insegnamento che possiamo trarre. Cogliere la grandezza delle piccole cose; imparare a stupirsi della vita; meravigliarsi della quotidianità. E non dare nulla per scontato.

Ma c’è un altro sentimento che continua a serpeggiare: la sfiducia. L’altalena delle decisioni, riviste, corrette, differite; il linguaggio usato dai politici sempre più fumoso, la mancanza di chiarezza per l’emergenza immediata e di progetto per il prossimo futuro; l’ostinazione su alcune scelte (MES sì, MES no; apriamo le scuole, non apriamo le scuole; le decisioni delle Regioni che contrastano con quelle prese dl governo). Tutto questo, e molto altro, ha messo il cittadino in una situazione di sfiducia nei confronti dei governanti e dei politici in generale di cui francamente non sentivamo il bisogno. La situazione è difficile e il governo ha fatto quello che poteva; forse altri avrebbero fatto meglio e sicuramente in modo diverso. Ma il disorientamento è stato ed è grande perché l’impressione, anche se frutto di un’emergenza che cambia aspetto velocemente, è di “navigare a vista”. Ma forse un po’ tutti noi non abbiamo saputo “puntare i piedi”. Abbiamo mostrato l’eterno, atavico, individualismo italiano; la non accettazione delle regole da parte di molti; la superficialità nell’affrontare l’emergenza da parte di tanti. Le regole, così, ci sono sembrate “dittatura sanitaria”, non tenendo conto della situazione, grave, generale. E d’altra parte la maggioranza di governo chiedeva l’appoggio dell’opposizione, una sorta di governo d’emergenza e poi non ascoltava le loro proposte. I DPCM hanno privato il Parlamento della legittima dialettica per dare immediatezza di decisioni; ma si è snaturato il Parlamento. La confusione regna sovrana ed è percepita anche da chi si tiene lontano dalla politica. Una sfiducia aggravata da un clima negativo che serpeggia: la classica guerra tra poveri. Ci sono le categorie dei lavoratori con stipendio fisso, gli statali, i pensionati, che non vengono coinvolti direttamente dalla crisi economica come chi perde il posto di lavoro e prende, se va bene, la cassa integrazione; come le partite IVA; come i commercianti. Si ripresenta la solita opposizione tra “il posto fisso” e chi scommette quotidianamente sulla propria pelle e si gioca tutto. Il governo corre ai ripari con i “ristori”, che ovviamente sono insufficienti, che ovviamente sono inadeguati. Ma la forbice tra “privilegiati” (privilegiati non  economicamente) e liberi professionisti sull’orlo della bancarotta si divarica sempre di più.

Cosa ci aspettiamo da questa crisi sanitaria-economica? Una presa di coscienza del popolo italiano, un “salto” della nostra mentalità, del proprio “particulare” come diceva Guicciardini. Spesso siamo superficiali, individualisti, egoisti, ma siamo anche  il popolo dei “ragazzi del ‘99”; siamo quell’Italia che ha fermato  sul Piave le forze di uno dei più grandi imperi d’Europa; siamo quelli che hanno combattuto da una parte e dall’altra sacrificando la propria vita nell’ultima guerra; siamo quelli che hanno ricostruito l’Italia dopo la guerra mondiale e hanno creato il “miracolo economico”. Siamo italiani, orgogliosi di esserlo, con i nostri difetti, con la nostra storia.

Antonio F. Vinci