Noi, di Walter Veltroni - Numero 49

 

Rizzoli Editore, Milano 2009, pagg. 352.

L’ex vice Presidente del Consiglio Walter Veltroni, con questo romanzo, ha percorso le vicende immaginarie di una famiglia italiana di Roma, attraverso quattro generazioni, muovendo dal 1943 ed approdando addirittura al 2025, con un’interpretazione molto personale che trascende la sfera storica per giungere a quella del futuribile. L’opera è suddivisa in quattro capitoli, emblematicamente riferiti ad altrettanti anni chiave, ciascuno dei quali coincide con una stagione simbolica: il 1943 è collegato all’estate ed il 2025 all’inverno, mentre la primavera e l’autunno sono rapportati, rispettivamente, al 1963 ed al 1980. Nell’immaginazione di Veltroni, la famiglia Noi (cognome volutamente fungibile con l’omonimo pronome) muove dalla difficile esperienza della seconda guerra mondiale, culminata nel tragico bombardamento di Roma (con la famosa visita di Pio XII a San Lorenzo); seguito a breve distanza dalla caduta del governo Mussolini, dall’otto settembre e dall’occupazione tedesca: eventi di tale rilevanza da condizionare la storia successiva dell’Italia, e di quella famiglia. E’ inutile porre in luce come l’autore muova da una pregiudiziale antifascista assoluta, pur concedendo che, a conflitto concluso, la reazione rossa non avrebbe avuto alcuna parvenza legalitaria: Veltroni sembra criticare quasi di sfuggita taluni "eccessi" come quelli verificatisi nel cosiddetto triangolo della morte o nel terribile eccidio di Schio, ma non accenna, ad esempio, al genocidio delle foibe, forse in ossequio alla sua origine slovena. Gli anni della guerra furono drammatici, tanto da far pensare ad una possibile eclisse di Dio, o quanto meno, ad una sua temporanea "sconfitta", testimoniata dai campi di sterminio, a proposito dei quali si insiste nel descrivere le nequizie dei "lager" tedeschi, ma non si fa parola di quelli sovietici immortalati da Solgenitsin (a proposito: è casuale ma significativo che proprio in concomitanza con la presentazione del libro di Veltroni sia stato comunicato che nelle scuole russe la lettura di "Arcipelago Gulag" è diventata obbligatoria) : un’altra buona occasione di obiettività perduta per strada. Eppure, quegli anni videro la fioritura di valori solidali, di cui in seguito, con l’avvento del consumismo e del relativismo, si sarebbe fatto strame. Da questo punto di vista, Veltroni sembra richiamarsi alle diagnosi formulate dalla sociologia americana sin dagli anni sessanta: basti pensare a quella di Robert Nisbet, secondo cui la crisi dell’uomo moderno deve essere attribuita al crollo dei contesti di aggregazione primaria, ed in primo luogo della famiglia, della comunità parrocchiale e dell’associazionismo. Ne deriva una rincorsa individualistica verso la solitudine e la dittatura dell’ego, che peraltro non è attribuibile all’antica matrice fascista, fondata sul primato collettivo del "noi"; bensì alla nuova cultura del denaro come misura di tutte le cose, importata dall’America. Per la verità, l’inizio degli anni sessanta era parso coincidere davvero con la primavera: terminata la ricostruzione, l’Italia indulgeva alle parvenze di un pur circoscritto benessere, come quelle derivanti dagli elettrodomestici, dalla televisione, dalla motorizzazione e dalle stesse suggestioni sportive. Peraltro, di lì a poco sarebbe subentrato l’autunno, ben testimoniato dal Sessantotto, e poco più tardi, dal compromesso storico, non estraneo alla proliferazione del terrorismo; per non dire delle carenze di programmazione, anche nell’ambito della politica del territorio, matrice non ultima di tanti dissesti. Le speranze indotte dalla ripresa furono rapidamente deluse fino a perdersi nella palude della violenza terroristica, tanto più orribile, al di là del numero delle Vittime e del gesto banale di chi sparava vigliaccamente alle spalle (come nel caso Calabresi) se non addirittura nel mucchio, in quanto poteva contare su malcelate simpatie della sinistra comunista ed antagonista, su connivenze della cosiddetta cultura impegnata, e sulla pur sofferta "comprensione" di qualche frangia cattolica. Veltroni, naturalmente, si schiera su posizioni garantiste, dissociandosi nettamente dal rivoluzionarismo velleitario delle Brigate Rosse o di Lotta Continua, ma sembra insinuare che alcune matrici della loro eversione vadano cercate negli effetti a lungo termine del 1943 e del modo esasperato con cui si ricollegavano all’antifascismo delle bande armate. Sembra di capire che, a giudizio dell’Autore, talune responsabilità del terrorismo vadano cercate in origini lontane, anziché nelle metastasi dell’utopia rossa; d’altro canto, non si deve dimenticare che l’opera di Veltroni non è un testo di storia, ma un romanzo. Dal 1980 al 2025, l’anno dell’inverno, c’è un salto di due generazioni, in cui il rifugio nella torre d’avorio individualistica finisce per vanificare la stessa follia terrorista. Il salto è reso più ampio ed ancor più difficilmente colmabile dal trionfo della comunicazione informatica e dal sostanziale isolazionismo che ne è scaturito, completando un percorso critico verso dimensioni egocentriche in cui ciascun essere umano diventa davvero una monade, con una residua possibilità di salvezza intravista nel ritrovamento di pur labili vincoli d’amore: obiettivamente poco per chi, come Walter Veltroni, appena due anni or sono aveva lanciato un programma di totale recupero etico e politico, anche se può essere comprensibile la sua delusione per il disastro della sinistra italiana, di fronte alle cui avvisaglie l’ex segretario del PD aveva ipotizzato, addirittura, una personale catarsi missionaria a favore dei bambini africani. Non contento della sua carrellata quasi centenaria sulle vicende della famiglia Noi, l’autore non ha mancato di estendere gli spazi temporali della sua opera con l’introduzione di qualche "flash" non proprio ottimistico su epoche ben diverse, spaziando dall’impatto con l’asteroide che distrusse i dinosauri parecchi milioni di anni or sono, al patibolare 11 settembre 1599, allorchè Beatrice, Lucrezia e Giacomo Cenci dovettero affrontare, guarda caso nella Roma papale, un boia tanto più efferato, in quanto colpevoli di un delitto che oggi avrebbe comportato non una, ma mille attenuanti. Almeno da questo punto di vista, pare sottintendere Veltroni, la civiltà giuridica ha compiuto qualche progresso, ma la sensazione è che si tratti di un avanzamento meramente tecnico, tuttora privo di correlazioni morali lontane dall’impegno dei governi contemporanei, incapaci di comprendere che il conclamato Stato di diritto può essere veramente tale se, prima ancora, sia capace di adeguarsi al grande impatto dell’ethos. In conclusione, il rimpianto di Veltroni per ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato prova a sublimarsi in un impegno letterario che resta motivo di sofferenza e non può prescindere dal richiamo della grande politica, ed oggi più che mai, dall’ardua capacità di collegarlo, senza se e senza ma, all’imperativo categorico di una legge morale basata sulla "Grundnorm" di salvezza dello Stato, e quindi, dell’uomo. Un’altra utopia?

C. M.