Le origini del silenzio - Numero 40

SOMMARIO DELLA SEZIONE:

  • LE ORIGINI DEL SILENZIO
  • IL SOGNO AMERICANO


    LE ORIGINI DEL SILENZIO

    Attribuire responsabilità determinanti per la perdita di Istria e Venezia Giulia ad Alcide De Gasperi ed alla sua politica estera, che ebbe certamente rilevanza prioritaria alla luce del particolare momento storico e della necessità italiana di recuperare un’adeguata credibilità internazionale, può apparire riduttivo, pur essendo ricorrente, in specie al giorno d’oggi, visto che il personaggio è in odore di beatificazione, e che esiste una fioritura di studi su quel complesso periodo della storia italiana.

    Il contributo dell’uomo politico trentino alla salvaguardia della sovranità nazionale nella sua Regione fu importante, e non meno positivo avrebbe potuto essere un atteggiamento analogo nella difesa del confine orientale, anche se nella fattispecie si dovevano fare i conti, anzitutto, con una Jugoslavia ben consapevole di forze contrattuali corroborate in misura determinante dall’alleato sovietico.

    Le responsabilità altrui, a prescindere da quelle del Governo italiano che dopo l’entrata in guerra nel 1940 a fianco della Germania aveva esteso il conflitto sul fronte orientale, non tanto per raccogliere il grido di dolore della Dalmazia irredenta che aveva ignorato pochi anni prima in occasione del patto di amicizia con Stojadinovic e della "cordiale intesa" con Belgrado, quanto per inseguire una strategia espansionistica non difforme da quella del Reich, non furono di poco conto. Basti pensare, in primo luogo, al ruolo degli Alleati occidentali, in cui prevalse una logica sostanzialmente punitiva, che finì per trascendere il loro stesso interesse, quando riconobbero a Tito la rappresentanza esclusiva della nuova Jugoslavia.

    Non si deve dimenticare che le istituzioni repubblicane, nello scorcio finale del 1946 ed agli inizi del 1947, quando venne firmato il diktat, erano ben lungi dall’essere consolidate, e che l’Italia usciva da uno dei periodi più tragici della sua storia, senza dire che il principio di "continuità" dello Stato imponeva un rendiconto impietoso, anche se i nuovi reggitori della cosa pubblica erano immuni da colpe specifiche.

    Ciò non significa che il contributo di Alcide De Gasperi e di altri membri del suo Governo ad una mutilazione abnorme anche sul piano sostanziale non sia stato di notevole spessore, soprattutto per avere disatteso l’ipotesi del plebiscito, che, qualora fosse stata estesa al Trentino ed all’Alto Adige avrebbe potuto comportare risultati negativi per l’Italia. A questo proposito, vale la pena di ricordare come persino Togliatti, quale Segretario del PCI, non fosse stato alieno dall’ammettere la possibilità di un plebiscito per Trieste e la Venezia Giulia: infatti, in un memoriale dell’agosto 1945 inviato a Stalin tramite Di Vittorio, aveva proposto un periodo biennale o triennale di autonomia politica e doganale sotto il controllo comune di Italia e Jugoslavia, dopo di che la sorte definitiva sarebbe stata decisa dal popolo.

    In realtà, Togliatti sembrava ritenere che le preferenze maggioritarie si sarebbero espresse a favore della Jugoslavia, ma non si può escludere che, nella sensibilità politica che lo distingueva, mirasse a prendere tempo, perché consapevole dei contrasti che la questione territoriale aveva suscitato nel suo stesso partito, e di cui erano stati episodi emblematici, tra gli altri, la strage di Porzus o l’uccisione di Lelio Zustovich. Del resto, di lì a poco, una volta consumato il distacco della Jugoslavia dal Cominform, il PCI sarebbe diventato strenuo sostenitore della scelta italiana, sia pure in chiave internazionalista, e la sua Federazione triestina guidata da Vidali, come ha ricordato Gianni Oliva, ne sarebbe stata la vessillifera.

    Tutto ciò contribuisce ad inserire la strategia di Alcide De Gasperi in una logica a più forte ragione opinabile, anche se non mancavano ragioni complementari, accanto alla situazione generale ed alla difesa dell’Alto Adige, che possono spiegare certe ritrosie oggi difficilmente comprensibili. Basti pensare che la Jugoslavia avrebbe chiesto all’Italia, in esecuzione dell’art. 15 del trattato di pace, la consegna di un numero largamente maggioritario di criminali di guerra o presunti tali, rispetto a quelli attesi dagli altri Stati vincitori (parecchie centinaia, contro i dieci dell’Etiopia o i dodici della Russia); e che tale pretesa era già stata definita prima del "diktat", innescando una tattica attendista motivata da più vaste ragioni internazionali ed avallata, almeno in via di fatto, da buona parte degli Alleati.

    Le rappresentanze giuliane e dalmate, come è noto, non ebbero modo di esprimere se non marginalmente le proprie attese e motivazioni, e De Gasperi non seppe o non volle avvalersi di talune discrasie che si erano manifestate tra Stati Uniti da una parte, e Francia e Gran Bretagna dall’altra, nella proposta di determinazione dei nuovi confini. Fu così che l’Istria fu perduta quasi integralmente, mentre la costa occidentale, o quanto meno Pola, avrebbero potuto essere salvate, tanto è vero che l’esodo giuliano fu caratterizzato da una distribuzione geografica differenziata, in funzione dei tempi che segnarono la caduta delle rispettive speranze.

    Il giudizio storico complessivo non può negare i meriti di Alcide De Gasperi nella ricostruzione dell’Italia dopo la tragedia bellica e nell’acquisizione di una solerte amicizia da parte americana, che si sarebbe tradotta in cospicui incentivi alla rinascita. Tuttavia, non è azzardato affermare che per quanto attiene alle sorti dell’Istria e della Venezia Giulia il suo atteggiamento, peraltro condiviso da una larga maggioranza (con cui non vollero confondersi in occasione della ratifica del diktat le nobili voci di Vittorio Emanuele Orlando e di Benedetto Croce); fu condizionato dalle circostanze non meno che da personali incertezze e da una pur comprensibile ritrosia nei confronti di qualsivoglia forma di "Realpolitik", dando luogo a conseguenze di lungo termine.

    In effetti, il "grande silenzio" che avrebbe caratterizzato il successivo evolversi della vicenda giuliano-dalmata, con qualche eccezione episodica come quella dei fatti di Trieste del 1953 e del suo successivo ritorno all’Italia, e che avrebbe trovato esplicazione clamorosa nella farsa di Osimo, se non altro per i modi con cui venne condotta la trattativa e con cui fu predisposta la firma degli omonimi Accordi, ha avuto una matrice importante proprio nell’esperienza degasperiana.

    Oggi, a 60 anni dal diktat, rivisitare quella storia è utile, non soltanto in una prospettiva di conoscenza per quanto possibile oggettiva, ma prima ancora, per ribadire l’opportunità che, in una logica di equità, le attese del popolo giuliano e dalmata (come quelle in tema di indennizzo o restituzione dei beni, di tutela dei cimiteri e dei monumenti, di riconoscimento dei diritti previdenziali ed anagrafici, di un’informazione storica ad uso delle scuole conforme a verità, e via dicendo) non siano un "nome vano senza soggetto", ma diano luogo ad un impegno condiviso che faccia giustizia di vecchi e nuovi silenzi.

    Carlo Montani


    Con piacere riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Gianfredo Ruggiero, per altro già apparso sulla carta stampata.

    IL SOGNO AMERICANO

    L’America è comunemente conosciuta come la patria della libertà, come la nazione che più di ogni altra ha contribuito all’affermazione della democrazia nel mondo.
    Il suo modello di società è considerato dai suoi estimatori come l’unico in grado di assicurare al mondo intero pace e benessere e di stabilire un nuovo ordine mondiale basato sulla concordia e la fratellanza.
    Ma è proprio così? Siamo proprio sicuri che questo quadro sia reale e non semplicemente dipinto ad arte? Sin dalla sua origine, l’America nasce da un rifiuto dell’Europa: nel nuovo mondo venivano spediti, direttamente dalle carceri, i delinquenti di ogni risma, gli ergastolani, gli emarginati e gli avventurieri pronti a tutto. Puritani fanatici e vogliosi di rinverdire i fasti della Santa Inquisizione, cattolici perseguitati dai protestanti, ebrei vittime dei pogrom, affamati, asociali e spostati di ogni sorta, da tutto ciò nasce il popolo americano.
    Ha mosso i primi passi massacrando 10 milioni di pellerossa per sottrarre loro la terra, lasciandoli morire di fame e di inedia dopo averli ristretti in riserve indiane sempre più piccole e prive di pascoli - unica loro fonte di sostentamento - alcolizzandoli e fornendogli coperte infettate dal virus del vaiolo.
    E’ diventata potente con il lavoro di 14 milioni di africani strappati con la forza alla loro terra e trattati alla stregua di animali domestici su cui esercitare diritto di vita e di morte (mentre l’Europa romano-cristiana, vera culla di civiltà, si avviava a cancellare per sempre la schiavitù). Si sono dovuti attendere gli anni ’60 per porre fine alla segregazione razziale in vigore in molti Stati USA. Durante il secondo conflitto mondiale, il cui ingresso è stato fortemente voluto dall’influente apparato industriale americano per superare la crisi economica che si protraeva da dieci anni - dal fatidico venerdì nero di Wall Street - l’America ha massacrato milioni di civili inermi nei bombardamenti a tappeto delle città tedesche e italiane. Ad Amburgo come a Dresda perirono, bruciati vivi dagli ordigni incendiari o mitragliati dal volo radente dei caccia, oltre duecentomila civili, per poi completare l’opera con le bombe atomiche gettate su due delle più popolose città del Giappone, oramai prossimo alla capitolazione, che fecero altrettante vittime innocenti.
    I giovanissimi soldati tedeschi della Wermach, ragazzi di 15 e 16 anni, rinchiusi nei campi di concentramento americani e inglesi venivano volutamente lasciati morire di fame, di malattie e di stenti. Costretti a scavarsi con le mani delle buche dove ripararsi dal freddo, sotto lo sguardo indifferente dei carcerieri alleati.
    A guerra finita i "liberatori" si girarono dall’altra parte quando i partigiani comunisti massacravano i fascisti o presunti tali, familiari compresi. Quando riempivano le fosse comuni con i corpi straziati dei giovani soldati della Repubblica Sociale Italiana arresisi dopo il 25 aprile.
    Nel dopoguerra, dopo averci distrutto le città con i bombardamenti terroristici del ’44, l’America, con il piano Marshall, ha investito in Italia grandi capitali per farci diventare una sua docile e redditizia colonia (cambiano i tempi, mutano gli scenari ma la logica statunitense è sempre la stessa: distruggere per poi gestire il business della ricostruzione). Al riguardo si parla tanto degli aiuti americani, ma si dimenticano gli enormi contributi, veramente disinteressati, provenienti dall’Argentina. Ogni giorno navi stracolme di ogni cosa hanno fatto la spola tra il Paese di Evita Peron e l’Italia, ma di questo nessuno ne parla. Durante la guerra del Vietnam per stanare i vietcong gli americani non esitarono a bruciare con le bombe al napalm interi villaggi, con le persone dentro. Tali operazioni venivano cinicamente chiamate "disinfestazione".
    Negli anni settanta e ottanta ha sostenuto le più sanguinose dittature militari sia in sud America, dove la CIA ha organizzato e finanziato i più cruenti colpi di stato, sia in Grecia e in Turchia con i regimi dei colonnelli. Salvo poi disconoscerli dopo che ebbero fatto il lavoro sporco o essere diventati poco utili ai suoi disegni geopolitici.
    L’Iraq, per giungere ai giorni nostri, era uno Stato sovrano, retto da una dittatura non tanto diversa da quella che possiamo trovare nei Paesi islamici amici dell’America come l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi e sicuramente meno feroce di quella cinese con la quale l’amministrazione Bush e l’Italia intrattengono ottimi rapporti d’affari. Le varie etnie e religioni coesistevano pacificamente (l’ex vice di Saddam Aziz è cristiano) anche grazie al pugno di ferro del Rais. Con gli americani non c’è più un edificio in piedi, neppure i luoghi di culto sono risparmiati e lo spettro della guerra civile è alle porte. Per non parlare dell’economia divenuta totalmente dipendente dall’America che si è appropriata del petrolio iracheno.
    Sotto le macerie delle loro abitazioni, distrutte dalle bombe a stelle e strisce, sono morte 162mila persone e almeno 30mila bambini; un’intera città, Falluja, è stata bombardata giorno e notte con armi al fosforo che hanno bruciato vivi e corroso migliaia di uomini, donne vecchi, e bambini; ai posti di blocco i soldatini di Bush dal grilletto facile uccidono decine di persone al giorno (come è successo al nostro povero Calipari). Nelle carceri americane in Iraq come a Guantamano la tortura non è una novità. In Afganistan, per rimanere nel campo delle guerre preventive, con l’occupazione americana è ripresa con vigore la produzione di oppio.
    L’America conserva un poco invidiabile primato, quello di essere la prima produttrice e utilizzatrice al mondo di armi di distruzione di massa: dalle bombe atomiche gettate sul Giappone, che ancora oggi mietono vittime a causa delle radiazioni, alle armi chimiche utilizzate in Vietnam e Iraq e per finire agli ordigni all’uranio impoverito utilizzati nei Balcani, causa primaria delle morti per cancro tra la popolazione e tra gli stessi soldati.
    Il bussines degli armamenti rappresenta una voce primaria del bilancio USA: le armi americane sono esportate in tutto il mondo, ovunque vi siano focolai di tensione. Nei paesi poveri scarseggiano il cibo e le medicine ma non le pallottole made in Usa. Non è un caso che negli ultimi vent’anni la fame del mondo invece di diminuire è aumentata ed è tutt’ora in costantemente crescita. La cultura e lo stile di vita americani sono intrisi di violenza: un’arma non si nega a nessuno, neppure agli adolescenti. Nei sobborghi delle città americane, all’ombra degli sfavillanti grattacieli, l’emarginazione, la violenza e l’alcolismo sono di casa. La stessa cinematografia è imperniata sui gangsters, sui cow boys che uccidono gli indiani e sulla forza bruta del potere. Non è un caso che l’America è oggi l’unico paese del Mondo occidentale a praticare la pena di morte. Come nei tanto osteggiati Paesi islamici e nelle peggiore dittature comuniste e militari.
    Venuta meno la minaccia sovietica ci saremmo aspettati un progressivo disimpegno militare americano in Europa, invece la Nato ha mantenuto sul nostro suolo il suo enorme apparato bellico fatto di oltre 120 basi, alcune delle quali nucleari (alla faccio del referendum che lo ha bandito). A quale scopo? Per difenderci dalla Svizzera o dall’Albania o per rimarcare, anche militarmente, il nostro stato di impotenza e di dipendenza dagli USA?
    L’America è sicuramente un grande Paese, sotto il profilo economico e militare, ma dal punto di vista umano e civile non ha proprio nulla da insegnarci. E rattrista vedere i nostri politici e intellettuali, di destra ma anche di sinistra, guardare con simpatia e ammirazione all’America, come se noi europei, maestri di cultura e civiltà, noi europei, che abbiamo insegnato al mondo a camminare, non fossimo in grado sviluppare un nostro modello di società, ancorato ai nostri valori di umanità e di giustizia sociale, oltre il capitalismo e distante dal marxismo.

    Gianfredo Ruggiero
    Presidente del Circolo Culturale Excalibur
    LONATE POZZOLO