Costume
Sono passati 77 anni dall’uccisione di Mussolini. E’ cambiato il mondo, in modo tale che risulta difficile riconoscersi in quel passato; fare riferimenti comprensibili ad un mondo che ormai non esiste più è per molti, non solo per i più giovani, come parlare dei marziani. Sono cambiati i modelli culturali e anche le griglie interpretative di un passato che si stenta a credere che ci sia stato. E’ successo di tutto in questi 77 anni: l’esplosione della bomba atomica, che ha decretato la nascita di una nuova era. Il galoppante progresso tecnologico che ha sconvolto usi e costumi: chi avrebbe pensato solo qualche decina di anni fa di poter dire che saremmo andati in giro con il telefono in tasca? La nascita di un’Europa unita, pur con tutte le difficoltà che riscontriamo quotidianamente. Le guerre presenti un po’ ovunque nel Pianeta. Eppure, ormai da decenni, ci interroghiamo perché il mito di Mussolini persista. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a testimonianze diverse, da film a scritti, che stigmatizzano questa presenza, scomoda, ingombrante, ma per lo più incomprensibile. Incomprensibile per la sua inattualità, ma comunque presente. Sara Lucaroni ha da poco pubblicato “Sempre Lui, perché Mussolini non muore mai“ , un titolo che racchiude questo interrogativo. Eppure anni di ricerca scientifica autorevole, di inchieste giornalistiche, di dibattiti estenuanti, ancora non hanno dato una risposta definitiva a questa permanenza. Al di là delle testimonianze di fedeltà, al di là del nostalgismo (tanto nessuno crede seriamente ad un ritorno di quel mondo, di quelle idee, di quel modo di essere; e poi, con chi?), al di là di atteggiamenti provocatori, cosa resta? Gli italiani furono probabilmente “mussoliniani” più che “fascisti”; innamorati di una figura che incarnava i loro ideali, le loro speranze, le frustrazioni da superare più che aderire ad una visione di un nuovo mondo, di una nuova civiltà da costruire, come l’aveva in mente Mussolini. Mussolini incarnava i difetti e i pregi dell’italiano medio, così come nel cinema – e può sembrare irriverente fare questo confronto, ma non lo è - sono riusciti ad interpretarli attori del calibro di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, ad esempio. D’altra parte è questa la specificità dell’italiano medio : a volte superficiale, furbo, convinto di essere più in gamba degli altri, ma anche capace di imprese eroiche, di dedizione al dovere, di sacrifici che nessun altro sarebbe capace di fare. I tanti episodi eroici della seconda guerra mondiale, per ricordare avvenimenti a noi tragicamente più vicini, lo dimostrano. Mussolini è l’eterno altro-io con il quale ci confrontiamo. La condanna ferma per gli errori tragici commessi non lo nasconde ancora agli occhi di molti: non c’è per lui damnatio memoriae, condanna all’oblio, ma neppure ricordo fulgido. Mussolini resta un fantasma del passato con il quale continuare a confrontarsi, a interrogarsi, che ci fa capire che la vita, la storia, non ha categorie nette tra bene e male, ma si svolge in un magma che forse non potremo mai capire. E forse è proprio vera la frase che Mussolini pronunciò :«Io non ho creato il fascismo. L’ho tratto dall’inconscio degli italiani».
Historicus
Pochi giorni fa la serata del Grande Fratello VIP è stato seguita da 3.356.000 spettatori, battuto dal film Ben is Back che ha avuto ben 4.093.000 utenti su Rai 1. E’ sembrato uno smacco, ma in effetti il GFVip ha superato il film nella quota dello share. Ma poco importa. I dati vogliono significare che 3.356.000 italiani hanno seguito Alfonso Signorini e i suoi ospiti. Perché, se da anni sulla stampa questo trasmissione è stata definita TV spazzatura? C’è chi sostiene che la gente la guarda perché, tornata stanca dal lavoro, vuole distrarsi, non vuole pensare, dedicandosi a una visione che non comporta impegni cerebrali. Sarà pur vero, ma il messaggio che passa è quello di superficialità, di voyerismo, di un volersi impicciare dei sentimenti e delle debolezze altrui, specialmente se sono famosi. C’è il gusto malevolo di vedere il personaggio confondersi, piangere, emozionarsi, con un mettere in piazza sentimenti che appartengono alla sfera privata e che più o meno consapevolmente vengono dati in pasto al grande pubblico. In un’epoca, poi, in cui la difesa della privacy sembrerebbe dover dominare sugli atteggiamenti quotidiani. Certo, è una libera scelta, nessuno costringe gli ospiti della casa “più spiata d’Italia” a mettere a nudo i propri intimi pensieri, ma ugualmente non assistiamo a scene edificanti. I personaggi lo fanno per il loro tornaconto e gli spettatori? Forse per il gusto di sentirsi diversi da chi sta dietro lo schermo, forse per il gusto moralizzatore di deprecare atteggiamenti diversi, forse solo per amore del pettegolezzo. Ecco: stiamo costruendo una socialità basata sul pettegolezzo. Certo si potrà obiettare che possiamo cambiare canale o spegnere del tutto la TV (proprio di questi tempi in cui siamo in casa a causa dell’ epidemia…), ma la TV è ormai da decenni il totem con il quale ci confrontiamo ogni giorno, per più ore. E’ la scatola della verità, quella che ci inonda di notizie, quella che “istruisce” i nostri figli con i suoi messaggi. C’è un certo imbarbarimento della società, è innegabile. Lo vediamo per strada, nelle polemiche in Parlamento, negli stadi, nelle scuole: ovunque. La TV da una parte riproduce questa situazione e dall’altra l’alimenta. Ci sono anche programmi culturali, per carità, programmi che non offendono la sensibilità di nessuno, ma non divertono …Perché il successo dei reality è anche il successo di “Uomini e donne”, una trasmissione in cui c’è la passerella di belle donne, con gambe abbondantemente sempre in bella mostra, che parlano del nulla con uomini che vengono presentati come possibili fidanzati. I loro discorsi sono sempre gli stessi: dall’accusa di non aver risposto ai messaggini all’aver atteso invano la telefonata ad attacchi di gelosia con l’immancabile risposta : “ma io posso uscire anche con altre donne”, oppure “non ti ho dato l’esclusiva”. Non ci meravigliamo né ci scandalizziamo, ma certa TV, è ormi scaduta nel pettegolezzo, nelle frasi fatte, nell’ “anche no”. Non si tratta di proporre storie edificanti, né il film su Bernadette (pur proposto pochi giorni fa …). Si tratta di non far passare l’idea che tutto è permesso, che non ci sono regole del buon gusto, della convivenza sociale con il rispetto della persona. E che dire di Temptation Island? Andare in un villaggio turistico con il proprio partner o con la propria fidanzata per mettere alla prova la loro fedeltà. E poi lamentarsi dell’avvenuto tradimento, quando si va in quella trasmissione sapendo che la dinamica sarà proprio quella di mettere alla prova l’altro partner. Sembra una grande rappresentazione teatrale, perché i microfoni sono sempre accesi, le telecamere sempre in funzione.
Già qualche anno fa, chiedendo a degli adolescenti cosa volessero fare in futuro, qualcuno rispondeva “il tronista”, mutuando questa “professione” dalla trasmissione “Uomini e donne”. Una società del superficiale, della plastica, dell’apparire, questo stiamo preparando per i nostri figli.
Giosafatte
E un bel giorno mi sono accorto d’essere diventato un appartenente ad una specie protetta! Un panda, in buona sostanza. O comunque una di quelle specie che, in via di estinzione o in situazione di pericolo per i cambiamenti climatici o per l’incuria dell’uomo, rischia di scomparire dalla faccia della terra. Mi sembrava d’essere il protagonista dell’opera famosa di Kafka, La metamorfosi. Una mattina Gregor Samsa si sveglia ed è diventato uno scarafaggio. Beh non mi sentivo uno scarafaggio, ma un po’ diverso dagli altri sì. Anche, ad onor del vero, con una punta di orgoglio personale: dovevo essere protetto. Non potevo estinguermi. La pandemia, infatti, pareva colpire soprattutto gli “anziani”. E quindi proteggiamoli questi anziani. Ed ecco il pressante invito a non uscire di casa per quelli che avevano 60 anni, poi con maggiore prudenza per quelli che avevano 65 anni, sino a giungere al limite dei 70 e più. Un popolo di “anziani”, dal Capo dello Stato al Papa, sarebbe stato estromesso dalla vita pubblica; magistrati, alti funzionari, una buona parte del mondo politico non avrebbe potuto e dovuto mettere il naso fuori della porta di casa. Certo, in caso di necessità, con le opportune precauzioni… con la mascherina … con i guanti ( nei primi tempi i guanti sembravano indispensabili) … con il lavaggio continuo delle mani con sapone e con gel … con il distanziamento sociale … L’Italia scopriva, a causa del Covid 19, che gli anziani non erano gli invisibili, non erano più quei fastidiosi nonni sempre pronti a rimproverare, a lamentarsi, a rimpiangere il tempo passato. Oddio non si era tornati alla “sacralità” di cui erano rivestiti gli anziani nell’antica Grecia o nell’antica Roma, ma un’improvvisa attenzione, una protezione per chi aveva costruito, nel bene e nel male, il presente, era subentrata nell’animo di tutti. E ci faceva piacere. Era ed è la difesa della memoria, della nostra storia personale e familiare, la storia del nostro essere Paese. Certo c’era anche un po’ il sospetto che, oltre al desiderio di proteggere persone care, subentrasse anche la, pur legittima, volontà di proteggere tutti gli altri, considerato che gli anziani, essendo più a rischio, erano più facilmente soggetti al contagio. E quindi, più facilmente, mezzo di trasmissione. Ma questa improvvisa attenzione ha cambiato un po’ il comune sentire della gente. I due estremi della vita dell’uomo, il bambino e il vecchio, due poli opposti che fanno – pur diversamente – tenerezza, erano toccati differentemente dal contagio. I piccoli sembravano immuni, tanto dall’essere esonerati in alcuni casi dal portare la mascherina; gli anziani no. Si scopriva una diversa fragilità. Ma chi sono gli anziani? La Treccani dà una definizione lapidaria :”di età avanzata, in senso assoluto o in relazione ad altri”. Per alcuni si inizia ad essere anziani con l’età del pensionamento, cioè verso i 65 anni. Poi, a mano a mano, si diventa vecchi…Si può essere con una mentalità da anziani … essendo ancora giovani; si è ancora giovani, attivi e disponibili, essendo già diventati anziani …. Non è facile. Certo, ci sono diversi “sintomi” per scoprire l’anziano, anche se non è proprio vecchio. L’anziano che non si arrende: quando improvvisamente si indossano pantaloni dai colori sgargianti (il rosso è un colore must); o quando si vuole apparire forzatamente, e ridicolmente, molto più giovani (ricordate il saggio “L’umorismo” di Pirandello? La signora anziana che si veste e trucca come una donna molto più giovane per non perdere l’attenzione del marito?). Ci sono atteggiamenti caratteristici: la dichiarazione di poter fare finalmente quello che si è sempre voluto fare e che non è stato possibile durante la vita lavorativa (seguire, ad esempio, lezioni all’Università della Terza età); la scoperta di nuovi hobby (classico è, per i più snob, la scoperta del golf); o, per coloro che si accontentano di poco, dar da mangiare ai piccioni nei parchi pubblici o “sorvegliare” i lavori dei cantieri edili in costruzione … Anziani : in un Paese come l’Italia che invecchia sempre di più, in cui nascono sempre meno bambini, l’attenzione nei confronti degli anziani da tempo ha iniziato a prendere una piega diversa. Hanno fino ad ora avuto un ruolo fondamentale nella cura dei nipotini, specialmente per quelle famiglie in cui ambedue i genitori sono al lavoro. Molte volte sono il sostegno per tante piccole necessità familiari, ma spesso sono stati anche un “peso” per le famiglie che non potevano più curarli o semplicemente accudirli. La morte per il Covid di tanti anziani ha fatto anche capire come quel “peso” è indispensabile per la nostra forza morale, per la nostra storia personale, per i nostri affetti. Ma, in un Paese in cui i giovani vanno via in cerca di fortuna, gli anziani possono costituire una valida risorsa, anche grazie al naturale prolungamento dell’età anagrafica e al miglioramento delle condizioni generali di salute. Non più solo un ruolo di comprimari, ma anche di protagonisti.
A.V.
Ha fatto un certo scalpore il tema di una ragazza di terza media di Roma. Il titolo, un po’ provocatorio, ma capace di suscitare riflessioni e critiche era: “Siamo tutti stranieri”. L’allieva ha redatto un lavoro che, francamente, forse ci aspetteremmo da uno studente di scuola superiore. E non solo per la struttura, la capacità argomentativa esposta, ma per i contenuti espressi. Assodato che il compito non era stato scritto da altri (la fanciulla ha fotografo il testo per mostrarlo ai genitori); che la ragazza sin dalla tenera età si è interessata alla politica; che ha uno zio senatore di Fratelli d’Italia (ma con il quale non ha una grande frequentazione); dov’è il valore aggiunto di questo tema? Perché ha suscitato scalpore e Giorgia Meloni lo ha postato sulla sua pagina Facebook? Ma nella sua semplicità, nell’ammissione di ciò che molti pensano e pochi dicono; anzi che viene ancora visto come un residuo di retorica patriottarda e fascista. Nel tema, infatti, si riconosce che “i confini esistono, le bandiere esistono, l’amore per la patria esiste”. L’amor di patria? Ma si usa ancora questa espressione senza scandalizzare le “anime belle” di sinistra e non, sempre pronte a stracciarsi le vesti? Fissa il tricolore a casa della nonna questa ragazza e sembra quasi leggere un passo di Guido Gozzano; sembra rivedere il salotto della nonna; quel tepore di cose buone, di ricordi, di valori… “Sono passati 15 minuti e io mi rendo conto che sto ancora fissando la bandiera. Tutto d’un tratto noto i colori del tricolore: verde, bianco e rosso. Il verde mi rappresenta la vita, il bianco mi ricorda la purezza d’animo di tutti i deceduti e i feriti delle foibe tra cui i miei parenti. Infine c’è il rosso. Il rosso mi ricorda il sangue degli innocenti come gli ebrei nel periodo nazifascista. Molte persone si chiedono: l’Italia si dovrà bagnare le mani di sangue di immigrati? Io invece mi chiedo: Italia si dovrà bagnare le mani di sangue degli italiani?”.
12 anni, tanti ne ha questa ragazza. Che dire? Le frasi si commentano da sé. Non c’è bisogno di letture critiche, di interpretazioni. Abbiamo dimenticato la sincerità e l’immediatezza di chi con innocenza grida in faccia agli ipocriti, agli opportunisti, ai conformisti: Il re è nudo!
Il Barbarossa
Qual è il termometro del Paese? Un’indagine statistica, una relazione sociologica, interviste a campione condotta tra le diverse classi, i risultati elettorali? In parte sì, ma soprattutto la lettura dei social! Sì. Provate ad aprire la pagina Facebook, ad esempio. Uno spaccato dell’Italia contemporanea si presenterà ai vostri occhi. Non ci credete? Provate. Però appena aprite un interrogativo vi si presenta immediatamente e vi assale: “A cosa stai pensando Antonio”? Oddio, non stavo pensando a nulla di particolare. Mi sento subito sotto osservazione. Mi sembra come se un’entità suprema mi chiedesse a cosa stessi pensando per controllarmi (meno male che non mi chiede cosa stessi facendo, non avrei saputo da dove incominciare). Chiedermi a cosa stessi pensando, beh un po’ mi turba: si entra nel mio pensiero, nel mio cervello; certo posso anche non rispondere, ma sapere che quello che penso potrebbe interessare altri … da una parte mi lusinga, ma dall’altra mi fa sorgere la domanda: a chi importa? E così se per il grande filosofo tedesco Hegel la lettura del giornale era la nuova preghiera dell’uomo moderno, oggi aprire la finestra sul mondo, all’inizio della giornata, è connettersi con i social, con Facebook principalmente. Così scorrendo la mia pagina Facebook leggo una serie di notizie. Certo, con attenzione, cercando di scoprire notizie interessanti - magari non riportate dalla stampa cartacea - distinguendole dalle fake news. Ma come si fa? Cercando, investigando, confrontando più fonti, ma di solito non hai il tempo per farlo. E allora ti soffermi sulla galassia degli inviti, delle notizie, degli appelli, delle confidenze, ecc. ecc. C’è chi ti mette in guardia dal fidarti degli altri, chi ti chiede di condividere il suo post sul politico del momento, chi vuole una tua scelta a proposito dei temi politico-sociali più scottanti. Insomma una folla di persone che vuole “condividere”. E forse è questo il segno della nostra epoca: ci si sente sempre più soli e sui social si cerca qualcuno che la pensi come te. E che dire degli appelli vagamente ricattatori: “vediamo quanti dicono mi piace”, “se sei d’accordo metti un mi piace”, “proviamo a contarci”? E poi ci sono quelli che “postano” filmati sugli animali (che sono i più belli, i più teneri…); quelli che mettono la foto della pizzata con gli amici (ma a chi dovrebbe interessare?); quelli che dispensano pillole di saggezza sul comportamento d’avere con i genitori, a scuola, in ufficio, ecc. ecc. Un vero e proprio manuale, in quest’ultimo caso, del perfetto cittadino. Perché abbiamo dimenticato come ci si comporta; abbiamo dimenticato di dire “grazie”, “permesso”, “per favore”. Ed anche questo ci viene ricordato da amorevoli persone che nulla hanno di meglio da fare che fare i moralisti da tastiera. E quelli che ci ricordano “come eravamo”? I nati negli anni Cinquanta, quando non c’erano cellulari, ma nessuno si preoccupava di sentirti ogni cinque minuti; quando si giocava a pallone nel cortile; quando ti sbucciavi un ginocchio e non andavi dal pediatra; quando l’insegnante ti rimproverava e tua madre non correva a scuola per avere spiegazioni aggredendo il docente ma ti mollava due sberle. Insomma su Facebook appare una umanità variopinta ma triste; una folla di persone sole che cercano conforto, adesione di altri, sostegno per le proprie affermazioni, scelte di vita.
Un mondo di solitari che si scioglie nel gran mare dell’umanità.
Giosafatte
A chi scrivere una letterina con i desideri per il 2018? Non certo a Babbo Natale (ha già fatto la sua comparsa ed è andato via) né alla Befana (troppo impegnata a portare i regali ai bambini). Allora la scrivo … a chi vuole leggerla …
Vorrei per il prossimo anno un nuovo governo, prima di tutto. E non solo nel senso ovvio di un governo nuovo dopo i risultati elettorali, ma proprio nuovo, diverso da quelli che abbiamo avuto sino ad ora. Un governo che si occupi un po’ di più degli italiani, della sicurezza, delle nostre tasche, del futuro dei nostri figli. Intendo : non solo a parole.
Vorrei una Destra più unità, non più frazionata in più anime, che riuscisse a far valere le ragioni dell’Italia in Europa. Non è una scelta di campo, ma mi ritrovo nella frase pronunciata tempo fa da Marion Le Pen “La loro Europa non è la nostra, anzi la loro è un’anti-Europa, quella dei tecnocrati, dei commissari non eletti, dei banchieri. La nostra è quella degli eroi, dei santi e degli inventori. La loro Europa ha 60 anni, la nostra 5 mila”.
Vorrei una scuola che fosse veramente una “buona scuola”. Importante, indubbiamente, l’entrata in ruolo di tanti docenti, ma importante anche riconoscere il ruolo delle scuole non statali per una reale parità. La libertà di scelta della scuola per i propri figli è elemento essenziale di una vera democrazia, per il perseguimento di un autentico pluralismo culturale e civile.
Vorrei più sicurezza nelle strade, senza timore di poter passeggiare di sera; essere tranquillo in casa, senza pensare di dovermi difendere; mandare i figli a scuola senza temere per il loro rientro.
Vorrei social senza fake news, senza quello stupidario digitale che ci sommerge, senza la retorica dei buoni sentimenti, senza volgarità.
Vorrei che non capitasse più di vedere, come successo a Carpi, la testa della statuetta di Gesù Bambino decapitata, come è successo pure a Solaro; né come a Viareggio dove, dopo aver “rapito” Gesù Bambino bianco …hanno portato via anche un Gesù Bambino nero; né avere una maestra che cambia il nome di Gesù in Perù nella canzone di Natale per non urtare la sensibilità dei bambini stranieri…
Vorrei, vorrei, vorrei …Quante cose.
Giosafatte
- Non sopporto quelli che vogliono divertirsi per forza, partecipare d’estate necessariamente a tutto quanto viene offerto dagli alberghi o dagli stabilimenti balneari, essere protagonisti in ogni occasione “perché la vita è una”, “perché ogni lasciata è persa”.
Proprio perché la vita è una non la voglio sprecare solo a ubriacarmi di distrazioni per non pensare a quanto sia breve … - Non sopporto quelli che dopo averci deliziato negli anni passati con “bestiale”, “un attimino”, “a monte”, “a valle”, ora ci deliziano con “anche no”, “anche basta”…
- Non sopporto quelli che ad ogni piè sospinto dicono “a prescindere”! A prescindere da che! Prescindi da te stesso!
- Non sopporto più quelli che, incontrandomi per strada, mi salutano dicendomi : “Com’è?”. Come vuoi che sia? Nuova versione del tormentone di qualche tempo fa : “Allora”?
- Non sopporto i catastrofisti, gli uomini degli ultimi giorni del mondo, del “dove andremo a finire”, ma non sopporto neppure quelli che tirano a campare, quelli del “ tanto le cose si risolvono”, del “vedrai che le cose cambieranno”. I primi hanno una visione sempre apocalittica; i secondi mi ricordano i personaggi di certi film in cui, assistendo l’amico agonizzante, sforacchiato da decine di proiettili, lo rassicurano con “ce la farai: te lo prometto!”. Bastasse una promessa!
- Non sopporto gli uomini “agé” che indossano, chissà perché, improbabili pantaloni rossi o gialli; in alternativa scarpe da ginnastica rosse con perline fosforescenti. Mi viene il dubbio che all’atto del pensionamento venga fornito anche un piccolo corredo.
- Non sopporto la mania del farsi tatuaggi. Quando ero bambino, essendo in una città di mare, mi dicevano che i tatuaggi li portavano quelli che erano imbarcati sulle navi. O quelli che erano stati in galera. Oggi tutti vogliono farsene uno. O più di uno. Da sfoggiare sulla spiaggia o per strada : nuovo tributo ad una moda antiestetica.
- Non sopporto la moda di festeggiare il diploma di maturità con tocco e mantello e con conseguente lancio in aria del tocco! Una tradizione che non ci appartiene e che ci rende ridicoli. Non parliamo poi della nuova consuetudine di incoronare con un serto di alloro i neolaureati! E se provassimo a mettere loro in bocca anche un limone?
- Non sopporto il politicamente corretto, in ogni sua forma; un modo spesso di dire ipocritamente con parole diverse ciò che si pensa, ma che ci si vergogna a chiamare con il proprio nome.
- Non sopporto più me stesso, perché dovrei sopportare meglio gli insopportabili.
Giosafatte
“Populista”: questo epiteto sta prendendo sempre più piede al posto dell’ormai un po’ stantio “fascista”. Partito dalla Russia della fine dell’Ottocento ad indicare un movimento politico che trovava nel mondo contadino la sua ragion d’essere, il termine è giunto sino a noi, con una connotazione sostanzialmente negativa. Dare del “populista” significa essere un po’ demagogo, cavalcare l’onda, “parlare alla pancia della gente”. Quest’ultima è un’altra espressione poco felice. Che significa parlare alla pancia della gente? Toccare le corde dell’emotività? Ma allora meglio sarebbe dire “parlare al cuore della gente”. Ma, si sa, il cuore è organo nobile, sede dei sentimenti, dell’amore e quindi si riferisce a qualcosa di elevato, di poetico, di sentimentale. Parlare invece di pancia evoca i “mal di pancia” politici, quelli dei morsi della fame, dei sommovimenti intestinali con note e non piacevoli conseguenze … Così il nostro vocabolario politico si muove tra termini ed espressioni che vogliono colpire l’avversario, depotenziarlo, privarlo della sua carica dirompente. C’è chi, però, di essere populista se ne fa un vanto. Paolo Del Debbio, giornalista, noto al grande pubblico per essere conduttore televisivo di successo, ha scritto un libro dal titolo “Populista e me ne vanto”. E qui svela il vero significato del “suo” populismo : andare incontro alla gente, parlare con la gente, sentire quello che la gente ha da dire. Certo il mezzo televisivo è una gran cosa e l’atteggiamento di Del Debbio, che non si è chiuso nei salotti con politici da intervistare, ha ottenuto successo. E’ populismo, quindi, sentire chi non ha occasione di dire la sua? E’ populismo dare voce a chi non ce l’ha?
E per rappresentare gli interessi più autenticamente popolari ci vuole un leader che sia carismatico, vicino al popolo e non ai Palazzi, pur nel diverso modo di presentarsi e di comunicare. E quindi facile riesce identificare il leader populista in Bossi, Berlusconi, Grillo e lo stesso Renzi, pur nella diversità dello stile. D’altra parte assistiamo sempre più chiaramente al disinteresse della gente per la politica, la freddezza nei confronti di essa, il disinteresse, il non sentirsi sufficientemente rappresentati e la disaffezione, l’antipolitica, che tocchiamo con mano dalle percentuali sempre in discesa di coloro che vanno a votare. Allora l’opposizione e il rinnovamento si fa con atteggiamenti populistici. Più corretto sarebbe, però, a questo punto dire popolari. Populista è quindi chi inganna con false promesse il popolo, chi lo accarezza per averne il consenso e poi tradirlo; popolare è invece chi lo ascolta, chi proviene da esso, chi guarda al popolo che, in democrazia, piaccia o non piaccia, è sovrano, l’unico titolato a parlare, a rivendicare diritti, ad essere rappresentato. Ed anche qui : non cadiamo in un atteggiamento “populista” … o qualunquista. Il popolo è … tutto il popolo; non è una parte di esso; non è solo il proletariato, o la borghesia, o i giovani, o gli anziani. E’ quella comunità legata dalla tradizione, dalla stessa cultura, dalla stessa storia, che si riconosce in un’identità.
Proprio quella identità che stiamo perdendo.
Giosafatte