Cultura
Mai come in questo periodo il nuovo Ministero dell’ Istruzione e del Merito è nelle cronache dei quotidiani. E non solo perché il nuovo ministro, Giuseppe Valditara, ha ribadito il divieto – norma che già esisteva – dell’uso indebito del cellulare in classe; né perché ha preso le difese dei docenti e del personale scolastico fatto oggetto di aggressioni nella scuola, offrendo la difesa giuridica da parte dello Stato; né per aver preso posizione nei confronti della dirigente scolastica del Liceo di Firenze a proposito dell’aggressione avvenuta fuori della scuola di alcuni allievi. No. A nostro avviso tutto prende avvio dalla mutata denominazione del Ministero, una volta diretto da Giovanni Gentile ( e scusate se è poco) : Ministero dell’Istruzione e del merito. Il “cambio di passo” c’è stato. E come. Una nuova denominazione che ha fatto sobbalzare sulla sedia i soliti “benpensanti”. Ma come, il merito? Facciamo una scuola classista? In effetti abbiamo dimenticato da anni quanto il merito sia fondamentale nella vita dei giovani e della società in generale. Abbiamo dimenticato il “6 politico” al tempo della contestazione del ’68? Lì non c’era merito e anche chi non si impegnava a scuola esigeva una sufficienza basata su un’adesione ideologica o almeno solo sul fatto di essere presente in classe. Il nuovo ministro, Giuseppe Valditara, è persona capace, uomo di scuola, consapevole che se si vuole cambiare il modo di fare didattica bisogna incidere profondamente in un ambiente in crisi, appannato, per molti versi sclerotizzato. Certo, ci sono scuole eccellenti, ma la popolazione dei docenti – basta leggere le cronache quotidiane – è sfiduciato. E non si tratta solo di un mancato riconoscimento economico che, da sempre, non è adeguato al lavoro prestato. Il docente ha perso il suo carisma; non è più il tempo della “maestra dalla penna rossa” del libro Cuore; la figura del docente è scaduta, maltrattata spesso da genitori che, dopo che si sono arresi di fronte alla mancata educazione dei loro figli, scaricano sui docenti le loro colpe. Ma poi ci sono continui episodi di violenza nei confronti dei docenti da parte di allievi, tanto che proprio recentemente il Ministro ha emanato una circolare – come si diceva - riguardante l’assistenza del personale scolastico vittima di comportamenti aggressivi. Ma ha suscitato perplessità più che altro l’aggiunta della frase, a quella storica di Ministero dell’istruzione, “e del Merito”. Finalmente direi! Ma, al solito, bisogna intendersi: cosa vuol dire “merito”. Il Dizionario internazionale - Il nuovo De Mauro, presente in rete, così definisce il merito: “ l’essere degno, l’aspirare a un riconoscimento, una lode o un castigo: premiare, punire a seconda del merito | diritto alla stima, alla ricompensa, all’elogio, ecc., acquisito in base alle proprie capacità o alle opere compiute”. Ecco, qui c’è tutto. Si tratta del giusto riconoscimento di chi, con le proprie forze, le proprie abilità e il proprio impegno, si merita la stima e l’elogio. Il timore è quello di lasciare indietro gli svantaggiati, quelli che –parliamo della scuola – hanno difficoltà, lacune pregresse oppure difficoltà oggettive. Non c’è un metro unico, oggettivo, che misuri il merito, ma esso è soggettivo, misurato sulla persona. A scuola ci sono allievi che sono classificati come DSA o BES, ma che si impegnano più di allievi che non hanno difficoltà, al di là del mero risultato numerico del voto: è difficile capire dov’è il merito? Si teme, in questa nostra civiltà dell’appiattimento, del pensiero unico, della finta uguaglianza, si teme la competizione. Ma la competizione, se è sana competizione e non è sopraffazione nei confronti di chi ha risultati migliori, è stimolo alla propria realizzazione, spinta a non accontentarsi del “minimo sindacale”, voglia di realizzarsi. Recentemente Stefano Zecchi su “Il Giornale” del 16 febbraio ha scritto un articolo che già nel titolo è un programma: “ Ansia da merito, ma la vita è competizione”. Scrive infatti : “ La virtualità spesso porta a non confrontarsi con la vita vera, e quando questa s’ incontra talvolta non si possiedono gli strumenti per reggerla. E si crolla. Cosa saggia sarebbe tenere insieme queste complessità psicologiche ed esistenziali, in cui c’è la virtualità, la realtà, la competizione, i propri meriti da far valere. Ci vuole un’educazione che non porti alla rinuncia e non esasperi il confronto con se stessi e con gli altri”. Chi lavora nella scuola vive in un osservatorio privilegiato per conoscere l’attuale generazione di giovani : spesso insicuri (la pandemia e la conseguente mancanza di rapporti sociali ha esasperato questa situazione); desiderosi di evitare gli ostacoli e non capaci di affrontarli; privi di stimoli e di interessi, abituati ormai a vedere il mondo circostante e non ad interpretarlo. Ma non né solo colpa loro. Questi giovani sono vittime di un clima di finta uguaglianza, di egualitarismo, di buonismo che non permette di vedere la realtà nella sua autenticità, di fare scelte autonome, di abituarsi ad un pensiero critico. La scuola oggi deve avere, anche, questo grande compito: far aprire gli occhi agli studenti, si deve dare un taglio etico che consiste nel diventare capaci di interpretare la vita, di scegliersi degli obiettivi, di guardare avanti. Ed anche di far valere i propri meriti, senza ipocrisie e come è giusto che sia. Ecco il ministro Valditara dovrebbe spingere verso questa rivoluzione nella scuola. C’è un grande bisogno di consapevolezza da parte degli insegnanti: eliminiamo o almeno limitiamo il puro apprendimento mnemonico, stimoliamo l’apprendimento critico, facciamo vedere ai giovani che c’è una realtà vera e molto più stimolante di quella virtuale, dei social media, dei cellulari. Strumenti utili ma che non possono prendere il posto della vita vera, e poi, torniamo alla solidità dell’apprendimento. I ragazzi non conoscono l’italiano, ormai diventato una lingua straniera con tutte le sue difficoltà di apptrendimento… Vengono dalle scuole secondaria di primo grado (le scuole medie) spesso, non sempre per fortuna, senza conoscere le tabelline (che si studiano alle elementari), senza conoscere la grammatica italiana. Non conoscono il vocabolario della nostra lingua e se non conoscono le parole non possono esprimersi, non possono dare corpo alle loro idee, ma continueranno a chiudersi in quel mondo virtuale, di vetro, che li isola sempre più dalla realtà. C’è una rivoluzione da compiere; diversamente avremo sempre più giovani incapaci di affrontare la realtà, perché senza strumenti e senza fiducia in se stessi. Non è facile, né si raggiunge lo scopo in poco tempo, ma bisogna spingere la scuola, le famiglie, la società tutta a porsi questo obiettivo. Bisogna dare vita ad un patto educativo tra scuola e famiglia, cambiare atteggiamento nei confronti dei giovani; un patto che prima di tutto deve avere la consapevolezza della situazione e della necessità, urgente, del cambiamento. Esiste già un “Patto di corresponsabilità” nella “burocrazia” delle scuole italiane; ma non basta. Deve nascere un “Patto etico”, di salvaguardia per le nuove generazioni. E non si tratta di fare altre sperimentazioni didattiche, di inventarsi nuovi metodi di insegnamento, nuove tecniche di comunicazione o adottare nuovi strumenti: tutto ciò può servire, ma se non si avverte che bisogna cambiare passo, ma sul serio, che bisogna guardare alla solidità delle conoscenze e non alle mode, alla saldezza delle tradizioni culturali del nostro Paese, saremo sempre più una civiltà in declino.
A. V.
Nei mesi rivoluzionari della presenza di d’Annunzio e dei Legionari a Fiume venne pubblicata il 27 agosto del 1920 la Carta del Carnaro. Fu un documento rivoluzionario. Era stata redatta da Alceste De Ambris, figura di socialista, attivissimo sindacalista rivoluzionario, volontario nella I Guerra mondiale, che aveva partecipato anche alla redazione del “Manifesto dei fasci di combattimento “di Mussolini, elaborando la parte economica. Giunto a Fiume diventò Capo di Gabinetto, dando così una svolta di sinistra all’impresa fiumana. De Ambris sperava di estendere la rivoluzione fiumana, letta in un’ottica sindacalista, a tutta l’Italia. L’occasione per dare le basi ideali a questo progetto fu la Carta del Carnaro, redatta da De Ambris e che D’Annunzio rivestì di alate parole.
Ma perché “rivoluzionaria” la Carta del Carnaro? In essa all’art. 2 si diceva :”La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali.
Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra per quanto è possibile i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono”. Già queste parole suonavano fortemente innovative per la cultura politica dell’epoca, con la proclamazione della democrazia diretta e di un’uguaglianza che rivestiva tutti gli aspetti. La sottolineatura del lavoro produttivo verrà ripresa con forza nell’articolo 6, dove è scritto :”La Repubblica considera la proprietà come una funzione sociale, non come un assoluto diritto o privilegio individuale. Perciò il solo titolo legittimo di proprietà su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro che rende la proprietà stessa fruttifera a beneficio dell’economia generale.” Come non ricordare che anche la nostra Costituzione repubblicana dichiara sin dall’art.1: ”L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” ?.
L’uguaglianza di tutti davanti alla legge veniva sancita con l’ art. 4 : “ Tutti i cittadini della Repubblica senza distinzione di sesso sono uguali davanti alla legge. Nessuno può essere menomato o privato dell’esercizio dei diritti riconosciuti dalla Costituzione se non dietro regolare giudizio e sentenza di condanna.
La Costituzione garantisce a tutti i cittadini l’esercizio delle fondamentali libertà di pensiero, di parola, di stampa, di riunione e di associazione. Tutti i culti religiosi sono ammessi; ma le opinioni religiose non possono essere invocate per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge”. E così, nell’art. 5 si garantiva “ a tutti i cittadini senza distinzione di sesso l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.” E qui si riprendeva quanto presente nel “Manifesto dei Fasci di combattimento” di pochi mesi primi, di quel 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro :
“Noi vogliamo:
- La sollecita promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i lavori la giornata legale di otto ore di lavoro.
- I minimi di paga.
- La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell'industria.
- L'affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici.
- La rapida e completa sistemazione dei ferrovieri e di tutte le industrie dei trasporti.
- Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia abbassando il limite di età, proposto attualmente a 65 anni, a 55 anni”.
Uno degli aspetti più interessanti della Carta del Carnaro è certamente rappresentato dall’art.13 :”I cittadini che concorrono alla prosperità materiale ed allo sviluppo civile della Repubblica con un continuativo lavoro manuale ed intellettuale sono considerati cittadini produttivi e sono obbligatoriamente inscritti in una delle seguenti categorie, che costituiscono altrettante corporazioni, e cioè...” E qui si elencavano sette Corporazioni.
Si prefigurava quindi quella partecipazione alla gestione del lavoro, già presente – come si è visto - in Piazza San Sepolcro, e che non si attuerà né a Fiume, a causa della fine dell’Impresa, ma neppure durante la RSI a causa del conflitto. Una terza via tra capitalismo e comunismo vagheggiata in quegli anni di grande fervore rivoluzionario e che si voleva realizzare con le Corporazioni.
A.V.
Se ne è andato il 17 gennaio Emanuele Severino. Sarebbe più appropriato dire è “scomparso”, non appare più. Eh sì, perché dell’apparire e dello scomparire Severino ha fatto la storia della sua vita. Autore di moltissime opere di filosofia, suscitando scandalo per le sue affermazioni tra gli studiosi ,ha iniziato la sua carriera di docente in Cattolica molto giovane. Allievo di un altro grande maestro, Gustavo Bontadini, ben presto gli studi della filosofia antica lo portarono ad approfondire il pensiero di Parmenide. E qui avvenne la folgorazione. Ogni studente del primo anno di filosofia apprende la famosa frase dell’autore greco : “L’essere è e non può non essere; il non essere non è e non può essere”. Una frase che può sembrare quasi un gioco di parole per i profani, ma che contiene una profondità di pensiero senza uguali, non contraddicibile. E su questa “rivelazione” Severino ha imbastito per tutta la vita il suo pensiero, la sua riflessione. Se è così, e così è dal punto di vista logico, le cose non nascono dal nulla e non divengono nulla, semplicemente non divengono: tutto è da sempre, eterno. Il divenire è solo un apparire e uno sparire, non un annullamento, proprio perché il nulla non c’è, è impensabile, è indicibile. La prima pubblicazione su questo tema, che diventerà, come detto, il tema di tutta la sua vita, è Ritornare a Parmenide del 1965. Ma aveva scritto già la sua opera forse più importante, La struttura originaria nel 1957. Poi verranno Essenza del nichilismo , Legge e caso, solo per citarne qualcuna. Una produzione incessante, sino agli ultimi giorni della sua vita. Il conflitto con la Chiesa diventò ben presto insanabile, la sua permanenza nell’Università Cattolica anche. E così Severino venne interrogato proprio come Galilei in un “processo” che durò dal 1961 al 1970; alla fine venne allontanato dalla Cattolica, per le conseguenze del suo pensiero in chiaro contrasto con la dottrina della Chiesa.
Ma cosa ha rappresentato Severino per i giovani della mia generazione e per quelli che impararono a conoscerlo in quegli anni sessanta? O perlomeno cosa ha significato per chi scrive la sua figura. Matricola all’Università Cattolica, sentivo parlare di Severino dagli “anziani” con grande reverenza, con rispetto quasi sacro. Io avevo intrapreso la mia strada da subito: storia contemporanea, ma la facoltà era di filosofia e quindi dovevo affrontare tutti gli esami di filosofia in essa presenti. Ascoltare le lezioni di Severino era come essere presenti davanti alla “Verità”. Può sembrare eccessivo, ma l’alone di stima che lo circondava era tale che durante le sue lezioni c’era la sensazione di essere di fronte al Genio. Erano gli anni in cui la contestazione dei suoi scritti era sempre più accesa e si incrociava con la contestazione studentesca. Ma Severino appariva saldo, come la personificazione della Verità. Come credente mi attengo al Magistero della Chiesa e quindi, pur affascinato dal pensiero di Severino, non seguo il cammino da lui tracciato. Del maestro conservo l’attaccamento agli studi, la volontà di scoprire la verità, la fedeltà alle proprie idee fino in fondo, ma io credo quia absurdum, credo perché assurdo. Mi resta la sua tenacia, l’insegnamento di chi fino alla fine ha tenuto fermo il suo punto di vista. Maestro di vita. Una visione della vita che si compendia in quanto dichiarò esattamente un anno fa, nel luglio 2019, su Vita magazine (intervista rilasciata a Marco Dotti) : “Non smetto di studiare, di pensare, di lavorare. Bisogna adattarsi alla vecchiaia senza cedere nel futile e nella logica del “passatempo”. “Aveva già compiuto novant’anni.
A.V.
Archiviate per morte naturale parole come “destra” e “sinistra”, dopo un dibattito durato decenni, nell’ambito del linguaggio politico hanno fatto ingresso ormai da qualche anno parole come “populista”, “sovranista”, spesso accompagnate dalle più che eloquenti espressioni di “fascista” e “razzista”. Un uso quotidiano di questi termini ma, molte volte, senza conoscerne in pieno significato, riferimenti, appartenenze. Prova a darne spiegazione l’ultimo numero di “Il Primato nazionale”, periodico sovranista come viene sottotitolato, nel numero di dicembre. Al secondo anno di pubblicazione questo periodico affronta questa volta le tematiche sovraniste con un focus che tocca più aspetti. Talvolta con un linguaggio un po’ complesso e di difficile comprensione per i più, ma, si sa, la filosofia della politica non è roba per tutti i palati. E come scrive nell’editoriale il direttore del periodico, Adriano Scianca, “è un momento di scomposizione e ricomposizione dei fronti ideologici: grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente”. Sintomaticamente il focus si apre con l’intervista ad uno dei ministri più discussi del nostro governo, il Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana. E già questa scelta, un’intervista a chi si occupa di fatti concreti, a chi si occupa di disabilità, di sostegno alle famiglie, di rilancio demografico la dice lunga. Non quindi, un “ideologo”, che parla di astratte teorie politiche, ma uno che punta al cuore dei problemi. Così il Ministro ha snocciolato le novità proposte dal suo ministero: un notevole potenziamento del Fondo Famiglia, come pure di quello per le disabilità e l’incremento dei finanziamenti per gli “incentivi alla natalità”; attenzione economica per gli asili nido; per il congedo dei padri, ecc. Insomma questo governo non è solo “quota 100”, sicurezza e reddito di cittadinanza (anche se si parla quasi solo di questo), ma ha una visione politica di lunga durata che investe davvero nel futuro del Paese e che affronta il problema, per non dire il dramma, della denatalità. Ed anche sulla questione delle famiglie gay, il Ministro Fontana non le manda a dire ma chiaramente: ”Lo dico ancora una volta: non ho niente contro i gay. Dopo le parole che mi sono state attribuite molti di loro mi hanno manifestato solidarietà. Detto questo, penso che un bambino abbia bisogno di un papà e di una mamma e non di un “genitore 1” e di un “genitore 2”.” Punto. Chiarezza, chiarezza ci vuole e coraggio contro il cosiddetto “politicamente corretto”. Ma il focus continua con altri articoli passando in rassegna gli altri partiti populisti europei e soprattutto con un invito al governo Conte a proporsi come “occasione per ridefinire le categorie”. Certo dare questa responsabilità all’attuale governo che arranca quotidianamente con non poca difficoltà, diviso tra diversi modi di vedere tra leghisti e “5 stelle” (al di là del “contratto” di governo), con i vari scivoloni anche a livello europeo che sono avvenuti, sembra piuttosto azzardato. Eppure nell’articolo di Fabio Torriero vengono messi in luce aspetti che stanno caratterizzando questo strano governo. Appare, cioè, il rafforzamento di nuove categorie politiche, come forze in contrapposizione: “popoli contro caste, identità contro globalismo, sovranità politica contro economia finanziaria”. Siamo convinti che quanto evidenziato da Torriero corrisponda a verità. La scommessa è tutta, ed ovviamente non si tratta di poco, nella realizzazione pratica di queste nuove categorie, nel loro successo. Scalzare le ormai desuete e morte categorie di “destra“ e “sinistra” per far spazio a nuovi modi di vedere, che rispondano alle esigenze del mondo di oggi: questa la scommessa. E forse, proprio questo governo formato da forze molto diverse tra loro, con una notevole carica dialettica tra di loro e anche all’interno del Movimento “5 stelle”, forse proprio questo governo che fa scintille, potrebbe realizzare questo cambio epocale. E chissà che l’opposizione, accusata di non esistere, e che si limita a non essere propositiva ma solo verbalmente caustica, non stia dimostrando proprio con il suo atteggiamento la fine di un’epoca politica.
Giosafatte
Quanti conoscono oggi Arturo Ferrarin? Non molti, certamente. Lo conoscono gli appassionati di aeronautica, qualche studente la cui scuola è intitolata a lui, ma il grande pubblico probabilmente poco o nulla sa di questo grande aviatore. Eppure Ferrarin è stato un mito dell’aeronautica italiana durante gli anni del fascismo. Nato a Thiene (Vicenza) nel 1895, partecipò alla prima guerra mondiale diventando pilota. Nel 1920 il suo primo grande successo mondiale : il raid Roma-Tokio. La trasvolata fu fatta a bordo di uno S.V.A.9 (la sigla sta per Savoja, Verduzio e Ansaldo, i nomi dei progettisti e dell’Azienda costruttrice).Al tempo non esisteva ancora la Regia Aeronautica : al momento si chiamava Comando Supremo d’ Aeronautica. Erano i primi aerei, fatti di legno e tela…; alla famiglia degli SVA apparteneva anche l’aereo con il quale D’Annunzio fece il famoso volo su Vienna il 9 agosto 1918. E lo stesso D’Annunzio era stato l’ideatore di questo raid che si spingeva verso l’Oriente. Quando Ferrarin e Guido Masiero atterrarono a Tokio c’era ad attenderli una folla di duecentomila giapponesi. Il raid si era svolto dal 14 febbraio al 31 maggio 1920. Ma il nome di Ferrarin è legato, oltre ad altri successi in competizioni aeronautiche, come il primato di volo in circuito chiuso, insieme a Carlo Del Prete, soprattutto alla famosa trasvolata verso il Brasile che lo avrebbe portato, sempre insieme al capitano Del Prete, a stabilire il record mondiale di distanza in linea retta senza scalo. Quest’anno celebriamo, pertanto, il 90° anniversario dell’impresa. I due piloti, infatti, decollarono il 3 luglio 1928 da Guidonia-Montecelio, percorsero in 49 h e 19 m 7.188 km, atterrando il 5 luglio a Porto Natal. L’atterraggio fu d’emergenza, perché invece di atterrare su Bahia i due piloti scesero sulla spiaggia di Port Natal. Nel serbatoio erano rimasti pochi litri di carburante … Il successo fu enorme. Ritornato in patria a Ferrarin venne concessa la medaglia d’oro al valore aeronautico. Il mito di Ferrarin era ormai realtà. E questo faceva ombra al potente sottosegretario dell’Aeronautica Italo Balbo che, nel 1930, diventato ormai Maresciallo dell’Aria, riuscì a farlo porre in congedo. Però, dopo quella burrasca, nel giugno del 1931 Balbo partecipò al matrimonio di Ferrarin con Adelaide Castiglioni, segnando la riappacificazione. Ferrarin continuò così la sua carriera di pilota e fu lo stesso Mussolini a chiedere di essere portato in volo da Ferrarin per inaugurare il Monumento ai Caduti della Prima Guerra mondiale a Redipuglia. La carriera militare di Ferrarin proseguì ottenendo nel 1935 la promozione a tenente colonnello ma, lo stesso 1935 fu un anno funestato da un grave incidente. Il 14 luglio del 1935, pilotando l’aereo di Giovanni Agnelli, un Savoia Marchetti S 80, Ferrarin andò a sbattere contro un tronco galleggiante nella fase di ammaraggio all’idroscalo di Genova causando la morte del suo passeggero, Edoardo Agnelli, di soli 43 anni. figlio del senatore Giovanni Agnelli, erede della dinastia. Ferrarin rimase indenne ma la sua storia di pilota collaudatore ebbe una grave battuta d’arresto. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale Ferrarin riprese i suoi voli come collaudatore ma, il 18 luglio 1941, ancora una volta un funesto mese di luglio nella vita di questo grande asso dell’aviazione, cadde con il SIAI 107° a Guidonia e vi trovò la morte: aveva solo 46 anni. Arturo Ferrarin. Un grande pilota, un asso dell’aviazione italiana, che ha fatto grande la nostra aeronautica.
A. V.
Il giornalista Andrea Coccia, sul sito LINKIESTA del 6 settembre, si è occupato di scuola con un articolo dal titolo significativo: ”Portate via i genitori dalle scuole”. E lo ha fatto mettendo il dito sulla piaga che più affligge la scuola italiana oggi. La burocrazia? No. La dirigenza? No. I docenti? No. Gli studenti sempre meno motivati? Nemmeno. Una tipologia di genitori, appunto. Eh sì, proprio loro. Perché chi vive nella scuola, chi vi opera, dal bidello al Coordinatore didattico, dalle segretarie agli insegnanti, al docente di sostegno temono la telefonata o l’arrivo improvviso, a qualsiasi ora della giornata, di genitori angosciati per l’insuccesso scolastico, per un’interrogazione andata male, in questa o quella materia. L’allievo telefona subito, grazie al proprio cellulare, a casa, raccontando come abbia conseguito l’insufficienza. Naturalmente il più delle volte si guarda bene dal riferire che l’interrogazione era stata programmata, che aveva saltato il precedente appuntamento o che non aveva portato a scuola i compiti da svolgere a casa. O semplicemente che non aveva studiato! Legittima, si dirà, anche se eccessiva, la preoccupazione del genitore che si precipita a scuola, se questa preoccupazione fosse indirizzata a scoprire le vere cause del “4” in matematica, ma la questione è che i genitori giungono con la certezza che il proprio figliolo sia stato vittima della solita ingiustizia… ”Perché vede, professoressa, lui studia, si applica, lo vedo ore e ore nella sua cameretta, che studia, ma non si sente compreso”. Certo non tutti i genitori sono così; c’è chi si informa, chi vorrebbe far partire quanti più corsi di recupero e di sostegno possibile, chi dà colpa alla situazione familiare, e così di seguito. E c’è chi anche onestamente riconosce che il proprio figliolo non ha voglia di studiare, non gli interessa proprio, e che dovrebbe applicarsi di più. Sì, ma perché dovrebbe avere desiderio di studiare se nessuno gli fa nascere la voglia, l’interesse, la passione? Perché, se a casa non ci sono interessi culturali, non si legge un libro o un giornale che non sia un giornale sportivo? O, peggio, si fa passare l’idea che il mondo sia dei furbi, di chi riesce a fare meno fatica?
Ciò che più colpisce nello scritto di Coccia è che fa riferimento ad un’indagine condotta da due sociologi americani, Keith Robinson e Angel L. Harris che nell’aprile 2014 hanno pubblicato sul New York Times i gravi risultati del coinvolgimento dei genitori nell’educazione dei propri figli. Un’educazione che li opprime, non li lascia liberi di sbagliare, di costruirsi la propria vita: “La maggior parte delle forme di coinvolgimento dei genitori, come osservare i corsi dei figli, contattare la scuola per sapere come si comportano, aiutarli a decidere il loro percorso scolastico, o dargli una mano a fare i compiti a casa, non migliorano i loro risultati. Anzi, in qualche caso addirittura li ostacolano” . “Insomma – conclude Coccia – la presenza costante dei genitori nella vita degli studenti di ogni ordine e grado non solo non è d’aiuto, bensì ha effetti negativi sulla crescita e sui risultati dei ragazzi”.
E questo, quindi, non vale solo per il nostro Paese, ma anche per gli USA.
La scuola non viene vista da molti come luogo di crescita, come luogo di educazione, oltre che di acquisizione di conoscenze, come un lungo periodo della vita in cui ci si prepara non solo culturalmente ma con tutta la propria personalità in sviluppo a diventare cittadini. La stessa scelta dell‘indirizzo di studi molte volte non è motivata da interesse o predisposizione, ma da opportunità di vicinanza logistica, da esclusione (che è almeno una scelta) di altri studi perché piuttosto impegnativi o dalle più svariate motivazioni. I giovani che giungono negli Istituti superiori dalla scuola secondaria di primo grado, quella che si chiamava scuola media, giungono un po’ spaesati, sorretti il più delle volte da genitori che sono più disorientati di loro e che si affidano un po’ alla buona sorte per il futuro dei figli: “L’ha scelta lui”; “le piacciono le lingue”; “vuole fare l’avvocato o l’ingegnere”; “vuole andare alla Bocconi”…
Abbiamo una generazione di giovani genitori che risultano essere super-protettivi. E questo è ancora più evidente, drammaticamente evidente, nel caso di alcuni genitori che hanno figli con problemi didattici o che sono DSA o BES. Genitori che, in buona fede, per troppo affetto, non lasciano crescere e sbagliare i propri figli. E i giovani questo lo avvertono. Capiscono d’essere spalleggiati da genitori che vedono il loro ruolo come una difesa “sindacale” dei propri figli nei confronti dei docenti che “non li capiscono”. E questi ragazzi sono consapevoli di questa situazione, su di essa si adagiano e si comportano proprio come i bambini che, piangendo, commuovono i genitori, i nonni, gli zii e ottengono quello che vogliono. Si, quello che vogliono, tranne di crescere da persone adulte e consapevoli, responsabili del proprio destino.
Antonio F. Vinci
Conosciamo tutti la storia tragica degli Ebrei. Una storia di persecuzioni, di espulsioni, di ghettizzazione, sino a giungere all’ apocalittica tragedia dei lager nazisti. Ma la nascita del primo ghetto della storia, quello di Venezia nel 1516 , è una storia tutta da conoscere. Perché, come ben racconta Francesco Jori nel suo libro, “1516 – Il primo ghetto. Storia e storie degli Ebrei Veneziani”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2016, “Con l’istituzione del Ghetto si viene dunque a sancire un particolare rapporto reciproco, ben inquadrato da Pier Cesare Ioly Zorattini, tra i più autorevoli storici dell’ebraismo :”La segregazione diventa per la prima volta condizione pregiudiziale per la sopravvivenza di questa minoranza, la cui permanenza nella città viene in certo qual modo garantita, malgrado le periodiche minacce di cacciata e i sistematici ricatti finanziari delle autorità locali” (pag.37). Il Ghetto di Venezia passa nell’arco di un secolo da 700 persone a circa 5 mila; ma lo spazio era quello che era. Ed ecco che nasce un nuovo modo di costruire le case : in altezza, con abitazioni che arriveranno sino a sette piani. Ma in quel luogo ristretto, in cui pulserà la vita di ogni giorno, ci sarà anche un fermento culturale con pochi uguali al mondo.
Cos’era la Venezia di quegli anni!
Personaggi come Tiziano, Giorgione, Palladio, Tintoretto, ma anche Pietro Bembo e il Ruzante; ma poi l’Università di Padova e personaggi famosi come Pomponazzi e Galilei. In questo clima il Ghetto di Venezia si sviluppa con i suoi abitanti dediti al commercio e diventa crocevia d’incontro degli ebrei che provengono da diverse parti dell’Europa, formando una comunità composita. E troveremo, quindi, ebrei di origine polacca,tedesca, slava, ma anche provenienti da altri Stati italiani. Eppure in questo coacervo di nazionalità la lingua utilizzata correntemente sarà l’italiano. Una comunità che viveva e pregava, prosperava e lottava quotidianamente e che la Repubblica di Venezia terrà sempre presente per spremere denaro. Una comunità che cresceva su un territorio limitato e che spinse i suoi abitanti a trovare spazio in verticale. Vennero su, così, case come piccoli grattacieli; abitazioni non sempre sicure, case anguste, in cui abitavano gli ebrei di Venezia. Le attività in cui eccellevano furono in primis quella del banco dei pegni, ma poi sarà seguita anche da quella del commercio di abiti e stoffe. Così Venezia permetterà agli ebrei di commerciare in abiti usati, la “strazzaria”, ovviamente non gratis ma dietro erogazione di un prestito. La storia dei rapporti tra la Serenissima e gli ebrei sarà quella di un potere politico che non perderà mai occasione di rimpinguare le sue casse con tasse e prelievi vari dalla comunità ebraica.
Interessa, però, notare come questa comunità diventi centro culturale grazie ai suoi intellettuali: Leone da Modena, Simone Luzzatto, Samuele Aboab e Sara Copio Sullam, una donna colta, conoscitrice di storia, letteratura, astrologia. La casa della Copio diventerà un vero salotto letterario frequentato da intellettuali ebrei e cristiani. E in questo Ghetto troveremo anche Mosè Zacuto che, per aver scritto il “Tofteh ‘Aruch”, L’Inferno preparato, verrà conosciuto come il “Dante degli Ebrei”. E come non ricordare la tradizione dei medici ebrei : a loro, poco dopo aver dato vita al Ghetto, e solo a loro, verrà consentito lasciarlo di notte per curare i malati. Non possiamo non ricordare a questo punto Giacobbe Mantino, la cui perizia medica fu tale da essere scelto come medico di fiducia da alcune famiglie aristocratiche veneziane e quando si trasferirà a Roma diventerà medico personale di papa Clemente VII e Paolo III. Il Ghetto finirà di esistere, come luogo chiuso, all’arrivo delle truppe napoleoniche che rimossero le porte e vennero fatte bruciare in piazza. Ma quello che ha significato per la storia il Ghetto di Venezia, rimane. Una Comunità plurale, formata da persone con cultura e tradizioni diverse che seppero dar vita ad una convivenza con il potere veneziano, sempre pronto a utilizzare periodicamente gli Ebrei come un bancomat, grazie alla loro abilità negli affari e nelle scienze, diventando, però, importanti interlocutori della Serenissima.
Barbarossa
E’ passato più di un anno da quando Marcello Veneziani salutò i suoi lettori. Negli ultimi tempi, per quattro anni, aveva curato per Il Giornale la breve ma caustica rubrica Cucù. Era un appuntamento quotidiano cui il giornalista, saggista, Marcello Veneziani ci aveva abituati. A dicembre sul suo sito aveva pubblicato un “Messaggio di fine anno” che risulta essere un vero e proprio addio :”Immaginavo di non andare mai in pensione con la scrittura ma di scrivere fino a che ero vivo e pensante. E invece mi sono trovato a vivere l’esperienza dell’azzeramento, dell’annichilimento, dell’uscita dal mondo”. Ora Veneziani lascia la “parola scritta” per privilegiare quella orale, con quelli che lui chiama i “comizi d’amore”.
Veneziani è stato un punto fermo per molti anni per la cultura della Destra, senza essere fazioso né sterilmente polemico. Ha dato voce ad un pensiero che non trovava, e non trova, facile presenza nella Repubblica delle lettere e dei media, fornendo materiale di riflessione a quell’area politica che non vuole allinearsi con il pensiero dominante. E’ stato costretto ad allontanarsi dal Giornale perché, come ricordava Giancarlo Perna nell'intervista su Libero Quotidiano.it del 12 aprile 2015 (Veneziani: "Berlusconi è già nella storia, ma deve lasciare la politica") " hai detto che ti hanno fatto fuori perché non sei cortigiano".
Ora Veneziani ha pubblicato un nuovo libro, Lettera agli italiani ma lo possiamo ancora seguire anche sul suo sito, dove continua a prendere posizione sulle vicende politiche con la consueta verve.
Riportiamo una parte dell’articolo La verità sulla Resistenza particolarmente significativa, presente sul suo sito : http://www.marcelloveneziani.com/la-veritagrave-sulla-resistenza.html del 25 Aprile 2016
Non posso poi dimenticare altre tre cose.
La prima è che la guerra partigiana ebbe episodi di valore e di coraggio ma anche di gratuita, feroce e impunita violenza. Dimenticare gli uni o gli altri è un oltraggio alla verità e alla memoria dei suoi eroi e delle sue vittime.
La seconda è che molti fascisti combatterono e morirono senza macchiarsi di alcuna ferocia, pagarono di persona la loro lealtà, la loro fedeltà ad un’idea e ad uno Stato; mezza classe dirigente dell’Italia di domani fu falciata dalla guerra civile.
La terza è che di risorgimentali autentici, di mazziniani e patrioti, ve ne furono sia tra gli antifascisti che tra i fascisti. I seguaci di Gentile, di Berto Ricci, di Balbo, ma anche di altri oscuri o controversi protagonisti del tempo, davvero pensarono, cedettero e combatterono nel nome della patria.
Non sto facendo nessuna apologia del fascismo, reputo il fascismo morto e sepolto da una montagna di anni. Ma non sono disposto a negare, attutire o rimuovere la verità e calpestare il sacrificio di quei ragazzi. Reputo l’antifascismo una pagina luminosa di dignità e di libertà quando il fascismo era imperante; ma non altrettanto reputo l’antifascismo a babbo morto, cioè a fascismo finito. Reputo la Resistenza una pagina necessaria nella storia d’Italia ma reputo le stragi di civili e le uccisioni a guerra finita una pagina infame. Si fa peccato a dire tutto questo? Sono pronto a peccare, nel nome della verità e della libertà.
Un lettore attento e non fazioso comprende che – a più di 70 anni dalla fine della guerra mondiale – queste riflessioni possono essere la base per chiudere finalmente con il passato. E non per dimenticare, ma per costruire un futuro certo, solido, che da troppi anni ci attende. Un futuro che del passato apprenda la lezione ma che non continui a farsi ingabbiare.
Antonio F. Vinci