Speciale

Questo è l’anno del Centenario della nascita dell’Aeronautica Militare italiana. Molte le manifestazioni per ricordare quel lontano evento, così carico di significato. Tra i tanti ricordi che vengono in mente ripercorrendo la storia gloriosa della nostra aviazione non sfugga, però, quanto avvenne tra  il 1º luglio ed il 12 agosto 1933, in occasione del decennale della nascita. Un’impresa che è rimasta famosa e che vale la pena ricordare. Fu la leggendaria “Crociera aerea del Decennale”: da Orbetello a Chicago, poi New York e ritorno a Roma.  Furono 25 idrovolanti SIAI Marchetti S.55X (la X si riferiva al Decennale della fondazione dell’Aeronautica) a prendere parte all’impresa; divisi in 8 squadriglie e un aereo di riserva al comando del generale di S. A. Italo Balbo.

L’idea era venuta ad Italo Balbo e inizialmente la crociera doveva celebrare il decennale dell’avvento del fascismo, nel 1932, ma mancando il tempo necessario per l’organizzazione venne spostata all’anno seguente e diventò la celebrazione del decennale della fondazione dell’Aeronautica militare italiana. Nel 1931 veniva costituita ad Orbetello la Scuola di Navigazione Aerea Di Alto Mare, la NADAM, dove i piloti avrebbero avuto un severo addestramento, sotto il comando del Col. Umberto Maddalena; in seguito alla morte del Colonnello la scuola verrà diretta dal 1932  dal Generale Aldo Pellegrini. L’occasione per la trasvolata fu l’Esposizione universale che si tenne a Chicago per festeggiare il centenario della città. Con 13 tappe gli idrovolanti fecero tutto il percorso e ritorno a Roma, ma non tutti: uno andò perso in un incidente sulla via del ritorno e causò la morte di Enrico Squaglia, decorato con medaglia d’oro al valore aeronautico, alla memoria. Ma non fu l’unico grave incidente: già il mese prima, nel luglio, in un’ altra sciagura  aveva perso la vita il sergente motorista Ugo Quintavalle. L’impresa voleva essere, come disse lo stesso Balbo, “una manovra in grande stile non una gara di velocità”; erano gli anni in cui il fascismo voleva farsi apprezzare in tutto il mondo con imprese eccezionali. Giunti a Chicago gli italiani vennero accolti da una formazione aerea statunitense disposta in modo da formare la scritta “Italy”, mentre attorno alla zona di atterraggio si presentò un numero impressionante di spettatori. La trionfale accoglienza fu evidenziata dalla scoperta della targa della General Balbo Avenue, il monumento a Cristoforo Colombo, la consegna della chiave in oro della città da parte del sindaco di Chicago, l’omaggio di una tribù Sioux che proclamò Balbo suo capo onorario con il nome di Aquila volante. Un enorme successo che fu replicato all’arrivo a New York con la famosa sfilata di Broadway che ne decretò il trionfo e venne coronato dall’invito del presidente F. D. Roosvelt alla Casa Bianca. Si volle proclamare la giornata del 15 luglio “Italo Balbo’s day” e chiamare la settima strada  “Balbo Avenue”, mentre il prestigioso “Time” gli dedicava la copertina. Al suo ritorno in Italia Balbo veniva nominato Maresciallo dell’Aria. Ma chi era Italo Balbo? I nostri ricordi di scuola ci portano alla memoria che fu uno dei quadrumviri, uno dei quattro (Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono, Michele Bianchi) che guidarono la Marcia su Roma del 1922. Ma Balbo fu anche molto di più: comandante generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, Sottosegretario all’economia nazionale e poi alla Regia Aeronautica; in seguito Ministro dell’Aeronautica e con questo incarico guidò sia la Crociera transatlantica Italia-Brasile che quella del Decennale. Fu governatore della Libia e cadde sotto il fuoco della contraerea italiana che lo colpì per errore nel 1940 sul cielo di Tobruch. Organizzò la Crociera aerea del Mediterraneo occidentale nel 1928 e l’anno seguente quella del Mediterraneo orientale. Ancora più famose saranno la Crociera transatlantica Italia-Brasile del 1930 e soprattutto la Crociera del decennale.  Balbo fu uno dei gerarchi più noti e famosi, tanto da far ombra alla stessa figura  di Mussolini, con il quale si trovò in disaccordo più volte. Va ricordato, comunque, che due giorni dopo la morte di Balbo un aereo britannico lanciò sul campo italiano una corona d’alloro accompagnata da un biglietto con questa scritta: «Le forze aeree britanniche esprimono il loro sincero compianto per la morte del Maresciallo Balbo, un grande condottiero e un valoroso aviatore che la sorte pose in campo avverso.»

Il Barbarossa

LA NUOVA SINISTRA - NUMERO 63

Perché l’antifascismo non muore? In altra parte di questo periodico ci siamo interrogati sul perché non muore il mito di Mussolini (non del fascismo, che non è la stessa cosa). Ora ci chiediamo perché si continua con la contrapposizione fascismo/antifascismo a tanti anni dalla caduta del fascismo. L’ antifascismo di oggi, ormai da parecchio tempo, dietro la pur nobile e doverosa difesa dei valori democratici, appare sempre più come l’ultima bandiera che è rimasta alla sinistra. E questa bandiera viene tenuta alta  … perché non c’è altro. Se la sinistra non facesse professione continua di antifascismo (giusta questa professione per quanto riguarda la difesa della democrazia e dei valori  fondanti della nostra Repubblica. Ma a questo punto dovrebbe fare professione anche di anticomunismo, di quel comunismo come storicamente abbiamo conosciuto,  non certo meno antidemocratico) cosa le rimarrebbe? Già  Herbert Marcuse, il “padre fondatore” del ’68, della contestazione,  negli anni sessanta (cioè più di sessanta anni fa!) segnalava come la classe operaia si fosse omologata al potere. Le nuove forze antisistema sono da ricercare quindi non più nella classe operaia ma nei nuovi emarginati, negli esclusi, nei disoccupati, in tutti coloro che sono rimasti ai margini di una società che non li ha ancora inglobati. E la bandiera che avvolge questi ultimi è, appunto, l’antifascismo. Rileggendo le pagine di Marcuse ne constatiamo l’attualità. La sinistra si aggrappa a queste “classi”, a questi emarginati, dopo che la classe operaia è scomparsa. Ed è scomparsa non in quanto classe lavoratrice, ma in quanto categoria sociale. La bandiera della sinistra sventola sugli emarginati, sui poveri, sugli immigrati, sulle folle di disperati in tutto il mondo. Giusto. Giusto prendere le difese dei più  deboli, di chi soffre, di chi non ce la fa, ma che ci sia chi pensi di affrontare queste difficoltà diversamente, con una scelta metodologica diversa, non può essere classificato sbrigativamente come “fascista”. L’antifascismo, così, è diventato buono per tutto ed assistiamo ad eventi che ricordano il costume fascista. Così vediamo la “spaghettata antifascista”, la “befana antifascista”  ed altri manifestazioni francamente un po’ patetiche nel volersi dare una patina di validità con l’appellativo “antifascista”. La storia va avanti ma nel nostro paese, paese di guelfi e ghibellini, le divisioni superate ormai dai tempi, persistono. La sinistra in questi tempi è smarrita, cerca un’identità e una figura come segretario nazionale che la tiri fuori dalle secche (almeno questo vale per il PD).Si tratta di rifondarsi, dopo che è diventata il partito della borghesia, dell’amministrazione del potere. E non sembra facile. La classe operaia si vede sempre più rappresentata da quella che una volta era il nemico storico: la destra. Ma questo perché, come noto ormai da anni anche se facciamo finta di nulla e continuiamo con le storiche contrapposizioni, sono saltate le ideologie e la differenza la fa la parte che meglio risponde alle esigenze dell’oggi; la differenza la fa chi ha una visione del futuro del Paese più chiara; la differenza la fa chi non si allinea con il pensiero dominante, col pensiero unico. Perché anche se siamo in un’epoca in cui l’omologazione, l’adesione a modelli stereotipati, è sempre più evidente, la consapevolezza di un cambio di passo, di un pensiero autonomo e di scelte non sempre condivise dalla maggioranza, da quella che appare la maggioranza grazie ai mass media,  appare con uguale evidenza.

Giosafatte

Parlare dei banchi a rotelle è, con frase ormai passata alla storia, come “sparare sulla Croce Rossa”. Che dire, dopo tutto quello che è stato detto e scritto. Ogni parola, ogni commento sembra inutile. Indubbiamente meritoria l’iniziativa della ministra Azzolina, che ha voluto fornire le scuole italiane di nuovi banchi, dismettendo quelli ormai vetusti. Ma nessuno credo abbia veramente capito e a nessuno è stato veramente spiegato, o forse mi è sfuggito, perché i banchi a rotelle. Assomigliano così  tanto ai seggioloni sui quali da bambini, poco più che lattanti, venivamo collocati liberi di giocare con i sonaglini e in attesa della pappa. Quei seggioloni avevano anche un foro al centro della seduta, affinché il pargolo potesse fare i suoi bisogni con comodità, a mo’ di “comoda”. E meno male che a nessuno è venuto in mente di riprodurli uguali oggi, magari per evitare il contingentamento per andare ai servizi… Incredibilmente, proprio in questi mesi in cui si chiede a chiare lettere e con insistenza giusta, quanto spesso inascoltata, di evitare assembramenti, proprio in questi giorni i banchi vengono forniti di rotelle. Proprio ora che i banchi dovrebbero essere inchiodati al pavimento per evitare facili spostamenti, ora che i banchi tradizionali sono stati collocati nelle aule con strisce adesive per terra che ne evidenzino gli spazi non superabili, proprio ora si mettono a disposizione banchi che possano con la più grande facilità spostarsi? Non voglio pensare ai percorsi da luna park, agli “autoscontri” nei momenti di intervallo, ma durante le normali ore di lezione in presenza questi banchi chiaramente verranno mossi con la più grande facilità, contraddicendo proprio l’attenzione a quel distanziamento di cui tanto si è detto. Misteri dell’istruzione italiana. Senza contare l’esiguo spazio a disposizione per appoggiare libri, vocabolari o quaderni. Ma la nostra scuola ci ha ormai abituato a sorprese, da sempre. Sorprese che poi tali non sono, diventando ormai prassi normale. Nulla è più stabile del provvisorio. Ci siamo abituati alle lungaggini burocratiche, al “valzer” annuale dei supplenti, alle nomine di dirigenti che sovrintendono contemporaneamente alla propria scuola e sono reggenti anche altrove, alle riforme scolastiche. Quasi non c’è ministro della pubblica istruzione che non faccia la sua riforma, magari anche piccola, che passerà alla “storia”. Intanto la scuola si dibatte in una palude, nelle sabbie mobili di decreti, norme, note che vengono in continuazioni emanate, specialmente in questi tempi di pandemia. Indubbiamente il momento è difficile, l’esperienza è unica e mai avvenuta in simile forma, ma il disorientamento è anche grande. Poi ci sono i genitori. I genitori che gridano per la scuola in presenza, come se ci si divertisse a farla online. O meglio: certi ragazzi si divertono o dormono o fanno tutt’altro che impegnarsi. E per i più piccoli è una vera sofferenza la mancata socializzazione. Ma il grido di dolore di tante famiglie è dovuto più che altro al fatto che non sanno dove parcheggiare i propri figli. Indubbiamente problema non da poco, specialmente quando si lavora in due. Problema non da poco, quando non si ha la connessione o il pc. La scuola diventa in questo modo, inconsapevolmente, questo è vero, mezzo per un’ulteriore ingiustizia sociale, per una differenza che pesa sul futuro dei propri figli. Ma la situazione è quella che è. Poi ci sono gli insegnanti, che si inventano modalità online, sperimentano nuove piattaforme, nuove metodologie didattiche. Niente: chi non aveva voglia di studiare continua a non farlo. Il fatto è che manca una cultura della scuola, una cultura, una consapevolezza di cosa voglia dire andare a scuola. La scuola dell’obbligo non ha certamente favorito una coscienza dell’importanza dello studio. Ma non è colpa dei ragazzi. La società del benessere non stimola alla curiosità, al miglioramento, a porsi degli obiettivi, ma è sazia davanti alla TV, al tablet, al cellulare, inebetita dal nulla.

V. A. F.

Mai come in questo periodo la scuola, come istituzione e come struttura logistica, è stata nell’occhio del ciclone. La pandemia ha messo in luce quello che già si sapeva da anni, da sempre: l’inadeguatezza delle strutture. Se il distanziamento tra alunni sembra essere se non l’unico uno dei metodi possibili per evitare il diffondersi della pandemia, l’impossibilità di attuarlo nelle nostre strutture scolastiche appare evidente. Il Presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, Antonello Giannelli, ha dichiarato : Secondo le stime del Ministero saranno 1 milione e 200 mila gli studenti che faranno lezione fuori dalle aule, aggiungendo che “ Resteranno fuori dalle scuole 40 mila classi. L’idea di collocare i ragazzi nei locali confiscati alla mafia è bella, ma serviranno moltissime strutture”. E questo è già un disastro di per sé, perché significa che si tornerà alla didattica a distanza, la famosa DAD, che non ha trovato unanime consenso, anzi; ciò specialmente nelle classi delle scuole elementari e medie. Legioni di madri in questi mesi di lockdown si sono adoperate per seguire i propri figli nella scuola a distanza, studiando insieme a loro, facendo le compagne di scuola dei propri figli e, come ogni compagno che si rispetti…, suggerendo durante le interrogazioni, nella speranza di non essere viste o sentite dal docente. Sui social sono state inserite comiche riprese di mamme stressate dalla scuola, intente a suggerire con cartelli, magari nascoste dietro una tenda della cameretta del figlio…Al di là della comicità della situazione è apparsa ancora una volta l’incapacità di alcune famiglie di insegnare ai propri figli a studiare, a compiere il proprio dovere, piuttosto che insegnare a “sfangarla”, a fare i furbetti, magari mettendo i post-it sul bordo del video, non visibile dalla prof., con i suggerimenti in bella vista. Tanto, oltre tutto, si era ammessi comunque alla classe successiva. Ammessi, ma significava promossi… La situazione era ed è drammatica, ma il rimedio è stato trovato in fretta e con scarsa o nulla visione educativa. Si è voluto salvare l’anno scolastico non facendo cadere sulle spalle degli allievi il peso della crisi epidemica, ma la soluzione trovata ha fatto perdere ancora ulteriore credibilità alla scuola e alla sua funzione educativa. E’ facile criticare e credo che pochi avrebbero voluto trovarsi nella situazione della ministra Azzolina, costretta a prendere decisioni in una situazione mai registrata. Ma le incertezze, l’accavallarsi dei decreti, le diverse interpretazioni che nascevano, hanno non solo dato l’estro per lo scatenarsi dell’ironia sui social ma anche un senso diffuso di precarietà, di mancanza di sicurezza, di risposte chiare, di progetto di come affrontare l’emergenza. Ora ci troviamo a dover affrontare un nuovo anno scolastico con lo strascico delle inadempienze, delle lacune, che si vorranno colmare con i PIA (Piani di integrazione degli apprendimenti) e i PAI (Piano di apprendimento individualizzato) : i primi volti a recuperare le lacune di programma per tutta la classe, i secondi per colmare il deficit individuale. E poi? Poi se ne terrà conto nello scrutinio finale del prossimo giugno…Certo, non si potrà tornare indietro, poiché gli allievi sono stati tutti ammessi alla classe successiva ope legis! Ripeto : non è stato facile gestire, e parlo solo dal punto di vista strettamente didattico, la scuola, in questo drammatico periodo. Infatti non consideriamo per il momento la problematica della sicurezza per contrastare il Covid. Ma sicuramente si poteva fare meglio, si poteva meglio salvaguardare la valenza educativa, di crescita, di nascita del senso di responsabilità nell’animo degli allievi. La vicenda è apparsa svolta in modo un po’ sbrigativo, dettata dall’urgenza del momento, ma questa generazione già abituata al “tutto e subito”, non ha molto guadagnato in questo modo in autostima. L’appello alla responsabilità fatto a tutti i livelli quanto è stato recepito dagli allievi? E come? La didattica a distanza sarebbe stato un momento di crescita; invece è stato, dopo i primi giorni di smarrimento, spesso un modo più sofisticato per ingannare il docente, di sentirsi “in gamba” nel farsi notare presenti, ma spegnendo la videocamera e il microfono, in modo da non poter essere rintracciati. Insomma, si è persa un’occasione per far crescere la scuola e gli studenti. E non parlo, quindi, solo dell’applicazione di una metodologia di insegnamento diverso, ma di quella maturità che si chiama consapevolezza, responsabilità, senso del dovere.

E colpisce pure che molti presidi di fresca nomina stiano rinunciando all’incarico al Nord perché lontano dalla propria abitazione e con il pericolo che un nuovo lockdown possa tenerli lontani dalla propri affetti. Certo, sono assai lontani i tempi di un Giovanni Pascoli, giunto a Matera da San Mauro di Romagna per ricoprire la cattedra di latino e greco, all’una di notte, fra il 6 e il 7 ottobre del 1882, come racconta Giovanni Caserta nel suo “ Giovanni Pascoli a Matera (1882 – 1884) – Lettere dall’Affrica”, Edizioni Osanna di Venosa : « Pioveva e faceva freddo a Matera quella notte, e poiché non aveva la possibilità di pagarsi un albergo, si riparò in un portone in attesa dell’apertura della scuola, nella quale si stavano svolgendo gli esami di riparazione” . Era un giovane, Pascoli, già segnato da una serie di disgrazie e lutti familiari, lontano da casa.

Altri tempi, si dirà. E’ vero. Saranno anche gli anni in cui al Ministero della pubblica istruzione sedevano uomini come Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Giovanni Gentile. E’ cambiato il mondo, ma non possiamo abituarci all’accomodamento, non possiamo preoccuparci della scuola solo, anche se certamente non è poco, perché se chiude non sappiamo dove lasciare i nostri figli. Perché temiamo che per molti la preoccupazione sia stata più questa che la mancata istruzione e formazione. La scuola ancora vista come parcheggio e non come comunità in cui il ragazzo cresce come persona.

E poi la vicenda, e non diciamo altro, degli spazi che non ci sono, della logistica, dei banchi singoli, con rotelle o senza, per il distanziamento. Non commentiamo, per carità di Patria, perché le soluzioni proposte - anche se dettate dall’emergenza – mostrano la confusione e il panico in cui la scuola versa, in cerca di soluzioni alternative che non ci sono o che non possono realizzarsi.

Manca, invece, soprattutto una visione generale della scuola. Una didattica che non insegua le mode del momento ma che sia capace veramente di fare “scuola”, cioè istruzione, educazione alla cittadinanza, crescita individuale, volontà di sviluppare le capacità critiche. Invece in questi anni la parola magica è “competenze”, come se ci potessero essere competenze senza conoscenze. Contro questo nuovo mito (periodicamente nascono teorie e metodologie didattiche) già nel febbraio 2016 in un’intervista curata da Bruno Giurato su Linkiesta, l’archeologo e storico Salvatore Settis, già direttore presso la Normale di Pisa, affermava:

“Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche. Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando)”.

E più avanti : “Il modello dell’educazione di oggi è quello di Tempi moderni, di Charlot che fa l’operaio e esegue un solo gesto: prendere la chiave inglese e girare un bullone. L’ideale del nostro bell’ideologo-intellettuale-riformatore dell’educazione è proprio “formare” qualcuno che fa una sola cosa, e la fa senza pensare. Un modo di mortificare la ricchezza della natura umana. E la democrazia viene uccisa”.

 

Non si tratta di fare discorsi rimpiangendo tempi passati (quali?); non sono i soliti discorsi di vecchi professori, un po’ parrucconi che non sanno adeguarsi ai tempi. Noi li vediamo questi ragazzi che giungono alla scuola superiore e non sanno leggere decentemente, non sanno esprimersi correttamente in italiano, incapaci di esprimere valutazioni critiche. L’ ultima indagine OCSE-PISA evidenzia come i nostri ragazzi siano sotto la media Ocse per la capacità di comprensione di un testo, della sua valutazione critica e di riflessione. E va male anche in scienze e matematica. Ormai si parla di “povertà educativa” come di un’emergenza nazionale.I giovani che giungono attrezzati per affrontare una scuola secondaria di secondo grado sono quelli che provengono da scuole in cui ancora si insegna, magari con metodi diversi, più affascinanti, grammatica della lingua italiana; si insegna ad avere dei dubbi, ad avere uno sguardo critico, ad avere voglia di conoscere. Ad avere quello che Aristotele chiamava lo “stupore”.

A.V.

Adriano Visconti - Numero 60

ADRIANO VISCONTI DI LAMPUGNANO – ASSO DELL’AERONAUTICA MILITARE

E’ di poco tempo fa la notizia, riportata dal Giornale di Brescia del 13 novembre, del ritrovamento di frammenti dell’aereo del maggiore pilota Adriano Visconti. Si tratta di reperti di un caccia Messerschmitt Bf109 che venne abbattuto il 14 marzo 1945. Il pilota si salvò paracadutandosi sopra Costa di Gargano. I resti sono stati ritrovati, a quanto affermato dall’organo di stampa, dopo sei anni di indagini, sui monti sopra Tignale. E che siano i resti del velivolo del maggiore Visconti viene asserito dagli esperti dell'associazione Air Crash Po e di Romagna Air Finders.

Ma chi era Adriano Visconti? Semplicemente un eroe, un grande ufficiale, dimenticato dai più, ma non da tutti. Un grande combattente, protagonista di imprese memorabili. Con 26 abbattimenti accreditati (di cui 7 dopo l’armistizio dell’8 settembre) il maggiore Visconti è da considerarsi certamente l’Asso degli Assi dei piloti italiani della II guerra mondiale. Asso: un’espressione mutuata dal gioco delle carte e che significa “campione”, “il migliore”; almeno 5 combattimenti vittoriosi dovevano aver avuto luogo per meritare il glorioso appellativo e chi conseguiva il maggior numero di vittorie in combattimento diventava “asso degli assi”. Ecco, Adriano Visconti fu un “Asso degli assi”. Visconti iniziò la sua carriera nel periodo che va dal 1936 al 1939 e già nel 1940 ricevette la prima medaglia di bronzo al Valor militare; ben presto ottenne una medaglia d’argento al Valor militare nel 1941 e subito dopo un’altra, sempre d’argento, l’anno seguente. Una terza medaglia d’argento, nell’agosto del 1942, e un’altra per i combattimenti dell’aprile 1943 sui cieli della Tunisia. Era a Cagliari quando sopraggiunse l’armistizio dell’8 settembre 1943. E qui compì un’altra missione leggendaria. Comandante della 310 Squadriglia si trasferì a Roma per avere ordini, trasportando i suoi uomini, undici, su tre caccia monoposto: non voleva abbandonarli. Un’impresa eccezionale. Come rievoca con grande precisione Nico Sgarlato nel suo “Assi italiani dell’aviazione”, Delta Editrice: “L’operazione fu resa possibile svuotando la fusoliera del Veltro dell’attrezzatura fotografica, del battellino pneumatico di salvataggio e delle piastre di blindatura e, a quanto pare, su almeno due dei tre Veltro anche con la rimozione del seggiolino del pilota che doveva stare seduto sulle ginocchia di uno dei tre passeggeri. Sugli aeroplani di Visconti e del sergente Domenico Laiolo, due avieri trovarono posto seduti sul pavimento della fusoliera, sotto la struttura anticapottata, in uno spazio completamente cieco, mentre un terzo svolgeva la funzione di …seggiolino per il pilota. Il sottotenente Giovanni Sajeva aveva invece accolto sul suo aereo i due specialisti di corporatura più robusta.” Contribuì, dopo aver aderito alla RSI, a far nascere l’Aeronautica Nazionale Repubblicana al comando del 1° Gruppo Caccia “Asso di bastoni”, contrastando le incursioni nemiche su obiettivi italiani. Dopo uno scontro aereo del 14 marzo 1945, il 29 aprile 1945 venne ucciso a tradimento in circostanze mai chiarite del tutto.

Il numero delle vittorie non trova concordi tutti gli studiosi, proprio per le difficoltà di attribuire con certezza l’esito degli scontri aerei. Sta di fatto che Adriano Visconti, eroe della II Guerra mondiale, compì 591 missioni di guerra,72 combattimenti. Meritò 4 medaglie d’argento, 2 di bronzo, la Croce di ferro di prima e di seconda classe e 2 promozioni al merito di guerra. Abbattuto 2 volte, riuscì a salvarsi ma nulla poté di fronte a chi lo uccise a tradimento.

 

La guerra termina. Il 29 aprile 1945 Adriano Visconti firma la resa del suo reparto, il 1° Gruppo caccia, a Gallarate e viene condotto nella Caserma di Milano del “Savoia Cavalleria”, dove verrà ucciso a tradimento, come pure il suo aiutante il S. Ten. Valerio Stefanini. Visconti sarà finito con un colpo alla nuca. Ora riposa a Musocco, al campo X, insieme a tanti altri militari e fascisti che aderirono alla RSI.

Così rievoca quelle tragiche giornate Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia” del 29 aprile 2013: Così, il giorno dopo, il 29 aprile, proprio il Maggiore Visconti firmò la resa controfirmata dal Cln Alta Italia, dal Cln, da quattro capi partigiani “garibaldini” tra cui Aldo Aniasi, il “comandante “Iso”, successivamente deputato del Psi e sindaco di Milano per lo stesso partito, che a quel tempo comandava la brigata partigiana Redi. L’accordo garantiva libertà e incolumità per avieri e sottufficiali, e l’incolumità e l’obbligo di consegnarsi alle autorità italiane o alleate, per gli ufficiali. A quel punto i 60 ufficiali repubblicani e le due ausiliarie vennero condotti nella caserma del Savoia cavalleria in mano ai garibaldini. Ma Visconti e il suo aiutante Stefanini vennero allontanati con il pretesto di volerli interrogare. Mentre si allontanavano con i partigiani, i due vennero falciati da due raffiche di mitra alla schiena: il sottotenente Stefanini istintivamente tentò di coprire Visconti col suo corpo, ottenendo solo di farlo ferire gravemente. Il maggiore fu poi finito con due colpi di pistola alla testa. A sparare fu il guardaspalle di Aniasi, un partigiano russo, e il ruolo del futuro sindaco di Milano non fu mai chiarito, perché il duplice assassinio fu considerato “legittimo atto di guerra”, in quanto accaduto prima dell’8 maggio 1945, fine ufficiale delle ostilità in Europa”

Il suo motto era: “Piuttosto morire, per mantenere una parola, che morire da traditore”.

A Washington c’è una sala al “Mall Memorial Lincoln” in cui è ricordato come uno degli Assi della II Guerra mondiale; come pure a New York appare una sua foto al museo di Ellis.

A Fiume Veneto, presso il Museo Storico Aeronautico Scientifico e tecnologico Forze Armate” esiste un monumento dedicato ad Adriano Visconti e ai suoi uomini, mentre la sua divisa originale è collocata all’interno del Museo Storico Aeronautico del Friuli Venezia Giulia.

 

Riportiamo la motivazione dell’ultima Medaglia d’argento concessa al Maggiore Adriano Visconti:

 

«Valoroso comandante di squadriglia, già distintosi in precedenti periodi operativi, partecipava nel breve volgere di tempo durante l'attuale ciclo, a quattro violenti combattimenti nello svolgersi dei quali confermava le sue doti di abile e valoroso combattente e durante i quali abbatteva sicuramente un velivolo, uno probabile e ne danneggiava altri sei. Il 29 aprile, mentre coi propri gregari faceva parte di una nostra esigua formazione attaccante oltre sessanta velivoli nemici da caccia, di protezione a bombardieri che tentavano un'azione contro naviglio nazionale, con indomito spirito aggressivo si lanciava sugli avversari e con il fuoco delle proprie armi ne sconvolgeva la formazione collaborando all'abbattimento di numerosi velivoli nemici ed alla realizzazione di una fulgida vittoria dell'Ala Italiana che veniva citata all'ordine del giorno.»

— Cielo della Tunisia, 29 aprile 1943

 

Il Barbarossa

SPECIALE

 

Con questo numero inizia la collaborazione al “Barbarossa” Daniela Ferro. Docente di italiano, storia e filosofia, collaboratrice di riviste storiche,  Daniela Ferro ha scritto diversi volumi di carattere noir e ultimamente” Josephine Baker. Tra palcoscenico e spionaggio” (2017). Giornalista free lance, è stata collaboratrice del quotidiano “la Padania” dal 2002 al 2009 per le pagine di cultura, spettacoli, sport e inchieste.

 

CLARETTA PETACCI : UNA DONNA DI TROPPO

 

Claretta Petacci. Non l’amante - la prediletta – del duce, Benito Mussolini. No, Claretta Petacci. Lei sola.

Astrarla dalla figura di Mussolini sarebbe un’utopia. Né si tratta di processarla come sua complice. Né di assolverla in quanto una vittima brutalmente assassinata dai suoi nemici. Né di condannarla, in quanto avrebbe condiviso volontariamente la sorta di colui che trascinò l’Italia nel tritacarne della guerra.

È piuttosto una questione di fatti. Fatti che ricadono all’interno di quella categoria che è la vicenda tutta umana e personale di Claretta Petacci. Con luci e ombre. Con quei (tanti) punti interrogativi che costituiscono il fascino di ogni indagine storica.

 

 

L’incendio di due sguardi ardenti

 

Il 28 aprile 1945 la vita di Claretta Petacci si spegne, insieme a quella del suo amante, Benito Mussolini. La sardonica ironia che talvolta ricorre negli eventi umani posiziona la macchina del tempo al 24 aprile 1932. È la data annotata dalla stessa Clara. “In una giornata di libeccio – scrive–, mentre fugacemente a tratti rideva il sole, Ella mi ha parlato per la prima volta”. Clara ha vent’anni. È solo una ragazza. Come tante di loro, tiene un diario personale. Il suo cuore palpita, forse per la prima volta. Forse perché è davvero innamorata, forse perché subisce il fascino di un uomo che sa incantare le folle ed è al culmine del suo personale consenso in Italia. Clara, il giorno prima, ha visto Benito Mussolini. Ne è rimasta folgorata. E che cosa fa? Lo scrive. Perché resti un ricordo indelebile, nel cuore e sulla carta.

Figlia del dottor Francesco Saverio Petacci, medico in Vaticano, e di Giuseppina Persichetti, Clara è di estrazione sociale alto-borghese. Vive a Roma, la sua casa è a pochi passi da Villa Torlonia, residenza di Mussolini. Mussolini ha un nutrito carnet di amanti, alcune legate a lui anche da motivi politici, altre da pure liaison sentimentali. Ma è un carnet sempre aperto a nuovi nomi, a nuove conoscenze, a nuove avventure. E Clara non è solo giovane. È anche molto bella, con quel suo “sguardo ardente” che ricorda il cantautore Leo Valeriano nella sua “La ballata dell’illusione”.

Clara si trova a bordo dell’automobile di famiglia, condotta dall’autista Mario. Una vettura più veloce la supera. È l’Alfa di Benito Mussolini ed è lui stesso a guidarla. Clara fa pressioni sull’autista perché acceleri e la raggiunga. Così è. Mussolini scende dall’auto. Il risultato: il primo appuntamento. “Tremavo, ma non faceva freddo”, confessa Claretta.

Il 24 aprile di tredici anni dopo Claretta tremerà ancora, e non di freddo. Ma lei ancora non lo sa. Per ora c’è solo un’emozione vissuta col cuore di una ventenne. “Stringe le mie dita, mi guarda – ricorda Clara –. Gli occhi rilucono. Mario chiude. Lo guardo ancora che cerca di darsi un contegno dietro al vetro. Poi, mentre si mette in moto, si volge, mi fissa, alza una mano con cenno affettuoso (….) e piango di ansia, di gioia, d’amore, d’emozione”. Un climax perfetto: l’amore è nato.

 

 

Luci al canto del cigno

 

“Non sono la tua amante, sono il tuo amore”, scrive Claretta a Benito in una delle tante lettere che gli invia con assiduità. Amanti sono le altre, perché Clara sa di non essere la sola. Tradisce tuttavia la consapevolezza di essere, in un certo senso, l’unica. La donna con cui condividere notti di passione, questioni politiche (che per un uomo come Mussolini sono la quotidianità), i fasti e, infine, la rovinosa caduta. La stessa moglie del duce, Rachele Guidi, più volte nelle sue interviste ha confessato di aver sempre dedicato una preghiera anche a lei. Pietas post mortem? In fondo, la signora Mussolini avrebbe anche potuto non dire nulla, non toccare quel tasto per lei indubbiamente dolente. Ma, in fondo, è e resta un falso problema. Giacché è il fatto umano “Claretta” ciò che deve sbalzare in primo piano. E togliersi dall’ombra, dalle retrovie, dalla scenografia dell’uomo con cui “visse” e morì.

Nessun’altra scelse – perché di scelta consapevole si tratta– di stare vicino al duce, mentre scivolava nella fossa scavata dalla seduta del Gran Consiglio del Fascismo, la notte fra il 24 e il 25 luglio 1943. Si vota l’ordine del giorno Grandi. Mussolini è perso. Ma Claretta si sente persa senza di lui. E c’è, c’è sempre, costantemente, a costo di soffocarlo con la propria presenza, fisica o epistolare. Sono tante le lettere che viaggiano ogni giorno tra i due. E per lei non sono mai sufficienti. Resta sempre qualcosa da dire, da aggiungere. Resta sempre una buona ragione per scrivere ancora.

E la ragione per antonomasia la porta a rifiutare persino il piano che Mussolini ha predisposto per lei e la sua famiglia. Il primo no di Clara al duce, che ha predisposto un aereo, con partenza dalla più sicura Milano, da cui le forze alleate sono tenute a distanza dalla linea Gustav. Destinazione: Madrid. Altra città sicura, sotto l’egida del caudillo Francisco Franco, che forse un debito aperto con Mussolini ce l’ha.

Claretta tuttavia non salirà su quell’aereo. Accoglie la notizia dell’arresto di Mussolini quando è già in auto. Quando, insomma, è già tutto pronto. E sua madre non desidera altro che partire il più velocemente possibile. A nulla però valgono le sue insistenze. Claretta non se ne va. E non è il duce a chiamarla a sé. È lei a disobbedire e a imporgli la propria presenza nell’ultimo scorcio della sua parabola, umana e politica. E sarà così ancora. Perché non sarà su invito di Mussolini che Claretta sarà con lui durante il tragitto in Svizzera, nella camionetta in colonna coi nazisti, a Dongo. In una lettera, datata 22 maggio 1944, le scrive “Tu sei odiata al pari e più di me”. Forse vuole solo proteggerla. Forse il duce ha altri pensieri che non trascinarsi dietro una donna che certamente aveva amato, ma che ora può essere più un peso che non una consolazione.

 

 

Dalle cronache rosa alla spy-story

 

Insieme a Clara, si convince a non partire anche suo fratello, Marcello. I due saranno entrambi arrestati dai partigiani, quindi liberati dai nazisti.

Marcello ha due anni più di lei. È medico. Con lui, in quell’auto che non prenderà mai la strada per Milano, vi sono anche la moglie Zita e i loro due figli. Alcune fonti lo ritraggono come una figura torbida, invischiato in traffici di valuta. E al servizio di Mussolini. Sono però le parole scritte da Claretta, nelle lettere da lei inviate al duce – un epistolario in parte ancora secretato –, a far insorgere dubbi su questo velo nero che offusca la figura del fratello. “La prima volta che vedesti Marcello da te – scrive Clara -, lui ti parlò della sua situazione militare (…). Ne parlaste a lungo (e ancora l’ultima volta ne parlaste dettagliatamente) e sempre tenendo fermo che della cosa ti saresti interessato tu per evitare che Marcello figurasse e girasse (…). Al momento che tu senza smuovere le acque per non si sa come e da chi possono essere intorbidate per vigliaccheria – dichiari che l’ufficiale in questione è a tua disposizione – Marcello entrerà automaticamente nella nuova marina – e si libererà nel medesimo tempo da ogni intromissione pettegolezzo e cattiveria… Entra con il suo grado le sue qualifiche ecc. (….). Perciò io credo che noie eventuali intrighi e storie – tu provveda come eri d’accordo e tagli ogni commento e ogni ingerenza (…)”.

Più di trecento lettere dell’epistolario sono sparite. Gli stessi diari di Clara sono stati messi a tacere per più di 70 anni, quei diari che lei stessa consegnò alla contessa Rina Cervis, la quale provvide a seppellirli nel proprio giardino di casa, a Gardone Riviera, e furono poi confiscati nel 1950, quando vennero alla luce. Che cosa scrisse di così compromettente Clara a Benito Mussolini, e lui a lei?

Oltre ai dubbi insinuati su Marcello, ne sussistono sulla stessa Petacci. Al punto che qualcuno ha dipinto la figura di Claretta come una spia al servizio degli inglesi. Tanto da profilare la sua vicenda non come una storia d’amore, bensì nei termini di una “relazione pericolosa” all’interno di una spy-story.

Nelle pagine dei diari, Claretta riferisce di incontri a sfondo intimo, ma anche di confidenze ricevute dal duce, di conversazioni inerenti la situazione italiana. Sembra quasi ossessiva nella sua meticolosità, nella sua attenzione ai dettagli, persino ai più piccoli, relativi a qualsiasi circostanza. Inoltre una certa storiografia si chiede perché Claretta sia stata assassinata insieme al duce, se ne era solo l’amante: né la moglie Rachele né i figli di Mussolini subirono la stessa sorte. Allora, perché lei?

Il nipote di Claretta, in un’intervista, ha dichiarato che la motivazione consisterebbe proprio nel suo ruolo di spia per conto degli inglesi, ormai a conoscenza di tante, troppe informazioni, quindi divenuta scomoda, persino ingombrante nell’aprile del 1945, dopo l’insurrezione generale del CLNAI. Una donna di troppo, da far sparire.

 

 

L’ultimo viaggio

 

Che i rapporti tra l’Italia fascista e l’Inghilterra nel corso della guerra siano oggetto di contenzioso è un dato di fatto. La vera verità è appesa al filo di qualcosa che non c’è: i diari di Galeazzo Ciano, il carteggio tra Mussolini e Churchill, il materiale ancora inedito della Petacci. La “fantastoria”, però, non ha ragion d’essere. Se il solo appiglio alle vesti di Claretta Petacci spia per gli inglesi è nella sua abitudine a ricordare tutto – incontri, colloqui, telefonate – di quanto avveniva nelle sue giornate insieme a Mussolini, la fantasia ha molto da lavorare. Forse Claretta, all’approssimarsi della fine, sentì più forte l’esigenza di non perdere nulla dei momenti insieme al suo amato “Ben”. Forse era una donna molto metodica e precisa di suo. E, del resto, nulla di più naturale che il duce si confidasse con lei. La loro non era una relazione nascosta, bensì risaputa nota a tutti. Lei era riconosciuta come la compagna ufficiale di Mussolini. Con lei, quindi, il duce intratteneva rapporti di varia natura, non solo passionali. Soprattutto negli ultimi due anni. Anzi, arrivò chiaramente il momento in cui Mussolini non desiderò averla accanto a sé.

L’ultimo incontro tra i due avviene in una stanza dell’albergo Miravalle, a Grandola, in Val Menaggio, dove Mussolini trascorre la giornata del 26 aprile. È presente anche Marcello Petacci. Mussolini non si fa remore a manifestare il proprio disappunto. Quello che accade di lì a due giorni, poi, è storia nota.

La versione ufficiale circa gli eventi che precedettero l’uccisione dei due amanti e la loro stessa esecuzione è lacunosa e non tiene. È la versione per cui il solo a dover morire – quel 28 aprile – fosse Mussolini e Claretta sia stata una vittima accidentale, colpita per sbaglio, quasi si frappose tra i colpi di fucile e il corpo dell’amato, davanti al cancello di villa Belmonte, novella e romantica eroina della fine dell’epoca fascista. Suggestivo. Ma se i partigiani le usarono tanto rispetto, perché esporne poi indegnamente il corpo in piazzale Loreto?

La notte tra il 27 e il 28 aprile Benito e Claretta si trovano insieme a Giulino di Mezzegra, a Villa De Maria, sotto stretta sorveglianza. È certo. Lasciando da parte servizi segreti e fonti partigiane, emerge un’ulteriore ipotesi, ricavata dalle osservazioni eseguite da un medico legale, il dottor Aldo Alessiani, che nelle sue memorie espone quanto emerso dal confronto tra le foto dei cadaveri in piazzale Loreto e quelle precedenti l’esecuzione dell’autopsia (che riguardò comunque solo il corpo del defunto duce). Ne dedusse che la morte della Petacci e di Mussolini risalì proprio a quella notte, e non al pomeriggio successivo. E il corpo di Mussolini non presentava segni di colpi tali da far pensare a un uomo fucilato in posizione eretta, bensì colpito mentre si trovava a terra. E vi sarebbero dei segni di colluttazione difficilmente spiegabili. Quindi non ci fu nessun tentativo di Claretta di fare da scudo all’amante. La donna fu piuttosto – ma il “forse” è d’obbligo – vittima di un tentato stupro (ma l’autopsia sul suo corpo non fu mai eseguita) da parte dei suoi carcerieri. Potrebbe allora anche darsi il fatto che Mussolini abbia tentato di difendere Claretta, e che sia stato ucciso in quel frangente.

È pur sempre una pagina di storia italiana. La cronaca la scrivono i vincitori. E la fantasia popolare ricama su una vicenda di amore e morte, in stile melodramma, in cui una donna innamorata perdutamente del suo uomo – canta Leo Valeriano – “lo seguì fin dove la vita è niente”.

 

Daniela Ferro

 

Una Lega per tutti - Numero 58

E così Salvini ha trasformato la Lega. L’ha fatta passare da movimento territoriale a partito nazionale. Il momento storico è stato consumato pochi giorni fa, poco prima di Natale (qualcuno ricorda che anche il MSI nacque in prossimità del Natale, il 26 dicembre? Era il 1946, ma questa è un’altra storia). Il nuovo simbolo che segna il passaggio della trasformazione raffigura Alberto da Giussano inserito in un cerchio, la scritta Lega e “Salvini premier”. I colori dominanti sono l’azzurro e il giallo; non c’è più il verde “padano”, né il sole delle Alpi né, soprattutto, la scritta Nord. Non è mutamento da poco né di facciata. Salvini ha portato la Lega a diventare un partito nazionale. Preparazione lunga, partita con la fondazione di “Noi con Salvini” nata nel dicembre 2014 per avere la presenza della Lega anche nel Centro Sud, aprendosi al resto del Paese e non più limitandosi al Nord. Ma soprattutto è scomparso il tema dell’”indipendenza della Padania”.
Salvini ha portato al successo la Lega, facendola crescere notevolmente. La sua aspirazione a fare della Lega un partito nazionale ha percorso una strada tutta in salita però, tenuto conto degli atteggiamenti antimeridionalistici della Lega sino a qualche anno fa; senza contare il disconoscimento della realtà nazionale, sino alla non accettazione del Tricolore.
Ora Salvini è il migliore alleato di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia. E di questo vogliamo occuparci. Dov’è la differenza? Solo nei toni un po’ più drastici usati dalla Lega? A dire il vero Salvini ha già sfumato da un po’ di tempo le sue intemperanze verbali. L’atteggiamento contrario all’Europa, a questa Europa? L’atteggiamento nei confronti dell’euro? Sostanzialmente non c’è molta differenza. E lo stesso dicasi a proposito dell’immigrazione, dello ius soli. Ma allora perché votare Lega piuttosto che FdI? Indubbiamente conta molto la personalità dei leader: Giorgia Meloni, una donna (e questo è un valore aggiunto nel panorama della politica italiana) combattiva, decisa, con idee molto chiare, convincente. Matteo Salvini, un look un po’ dimesso e informale (raramente usa la cravatta…), felpa con scritta legata al territorio o alla situazione, barba incolta, calma olimpica (non perde mai il self control, non alza mai la voce), argomentazioni dettate dal buon senso. Un colore marcatamente nazionale nella Meloni, che si appella ai “patrioti”; ma un fare non molto diverso in Salvini,  Anche per lui l’appello è rivolto agli italiani, agli italiani prima di tutto, anche se non adopera in questo caso un linguaggio proprio della Destra storica. Ma anche la dichiarazione riportata il 24 dicembre su Il Giornale.it nei confronti dello ius soli conferma la posizione più moderata: "Lo stop è il nostro regalo di Natale agli italiani. La cittadinanza va meritata, va voluta, va scelta al compimento del 18esimo compleanno. Qualcuno voleva usarla come merce di scambio elettorale, la Lega anche se ora era all'opposizione è riuscita a ottenere più di una vittoria. Lo stop allo ius soli è una vittoria degli italiani e degli immigrati regolari che vogliono un paese più sicuro e con più dignità. Questo offriremo ai 60 milioni di cittadini italiani e stranieri che vivono in Italia". Sino ad affermare che il nostro Paese è un "un paese che accoglie, che integra ma che è orgoglioso delle sue tradizioni. Noi possiamo accogliere culture altrui se siamo ben fermi e orgogliosi della cultura nostra". Una “rivoluzione” nella comunicazione salviniana: lo stop allo ius soli visto come una vittoria non solo degli italiani ma anche degli immigrati regolari; una disponibilità ad accogliere persone che vengono da altri paesi, ma senza abdicare alla propria cultura, anzi orgogliosi di essa. E qui si intende, anche se dovrebbe essere ovvio, la cultura nazionale, non certo quella del Nord, o solo del Nord. Quanto sono lontane le parole che guardavano alla scissione, alla separazione dal resto del Paese, alla Padania. Salvini si candida leader del centrodestra e compie un’autentica rivoluzione: questa non è più la Lega che abbiamo conosciuto sino a qualche anno fa. Calcolo politico? Calcolo elettorale? Salvini sa bene che alle parole devono seguire i fatti, che trasformare la Lega da movimento del Nord a partito nazionale non è solo questione di cambio di un titolo o della grafica. Ma allora, dov’è la differenza con il pensare della Destra tradizionale? Qual è il valore aggiunto? Votare per Fratelli d’Italia è per alcuni votare per un partito ancora con troppi vincoli, sentimentali più che nostalgici, con il fascismo; la Lega, invece, è un movimento nel quale sono confluite più anime, anche di sinistra. E poi la Lega ha dalla sua il buongoverno, non promesso, non sperato, ma attuato in molte città e in regioni come la Lombardia e il Veneto. Regioni che sono diventate simbolo di efficienza, di capacità amministrativa, tanto da essere elevate ad esempio. La Lega ha formato una sua classe dirigente, basata sulla capacità manageriale e anche sulla capacità di fare pulizia dentro la propria casa (e non è poco). Perché è qui che si gioca la partita. La gente vede ed apprezza quello che accade nella vita di ogni giorno, nell’amministrazione quotidiana, nella politica delle piccole cose, dettate dal buonsenso e non da parole vuote e da retorica. Fratelli d’Italia non ha avuto molte opportunità di mostrare la sua “modernità” rispetto ad Alleanza Nazionale o al MSI; anche la volontà di salvare la fiamma tricolore nel nuovo simbolo di FdI (operazione a nostro avviso corretta e meritoria) può penalizzarla, facendola apparire troppo legata ad un momento storico molto diverso da quello attuale. Insomma: un’operazione nostalgia che Salvini non ha avuto, cancellando secessione, indipendentismo, la scritta Nord, ma lasciando il guerriero Alberto da Giussano che lotta contro il nemico.

Anche nei confronti del Movimento 5 stelle Salvini, a nostro avviso, si propone con un atteggiamento tutto suo. La gente vede gli amministratori leghisti come persone che vengono dal popolo, senza “la puzza sotto il naso”: insomma sono come loro. Questo essere popolari più che populisti, vicini alla gente, è la carta vincente. E, per tornare al look, Salvini questo lo capisce benissimo. Quanto lontano il look del grillino Di Maio, leader del Movimento 5 stelle! Sempre in camicia bianca perfettamente stirata; cravatta, giacca. Di Maio ha già un atteggiamento ministeriale, istituzionale, un po’ distaccato. Salvini, come già Bossi ai tempi (con un frasario, Bossi, non sempre diplomatico … molto corretto invece quello di Salvini), si rivolge alla massa, a tutti. In ambedue c’è la lotta contro questo sistema politico, ma in Salvini - jeans, camicia arrotolata sulle braccia o, meglio, felpa (un vero must salviniano) - vedi più vicinanza nei confronti della gente.  In Di Maio più l’atteggiamento di chi la sa lunga ed ha la soluzione in tasca: un giovane professore che ti vuole insegnare la lezione.

Antonio F. Vinci

La scuola, a ben vedere, è un po’ lo specchio dell’Italia. Dell’Italia presente ma, soprattutto, dell’Italia futura, di quello che ci aspetta. E’ vero che le generazioni dei genitori, degli insegnanti, di coloro cioè che sono preposti all’istruzione e all’educazione delle nuove generazioni si lamentano sempre delle precedenti, ma lo scenario che si presenta ai nostri occhi non è dei più rosei, al di là delle lamentele consuete. Non si tratta, cioè, di fare il “piangina” come dicono a Milano, ma di guardare la realtà.

Cosa dire infatti, ad esempio,  dell’abbandono in cui si trova la lingua italiana? Qualche mese fa fece molto scalpore la lettera  che più di 600 intellettuali avevano  inviato al governo e al parlamento per chiedere “interventi urgenti” per sopperire alle carenze della conoscenza della lingua italiana, riscontrate nei giovani che si affacciano all’università : "È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente". Diciamolo francamente : la lingua italiana è diventata ormai una lingua straniera. E non nel senso di poter offrire l’opportunità di conoscere una nuova cultura, come proprio delle lingue straniere, ma nel senso che non la si conosce, che la si deve apprendere nuovamente, partendo dai rudimenti appresi nella scuola elementare. D’altra parte non è certo un problema proprio recente. Né la colpa è da ascrivere ad un uso smodato degli sms e al linguaggio sincopato dei social che distrugge la ricchezza della lingua. E’ che la scuola – e chi se no – si allontana sempre più dal suo compito, che è quello di istruire e di educare. Anche con fatica. E invece no : la scuola oggi è diventata un grande contenitore di persone che cercano di fare il loro mestiere, ma limitato dalla necessità di essere soprattutto assistenti sociali, psicologi dei propri allievi.

La crisi della nostra società è prima di tutto la crisi della famiglia. E non solo delle famiglie che non sono più unite, ma anche di quelle che, pur senza avere divisioni interne o separazioni, non trasmettono ai propri figli quella che una volta si chiamava “educazione”. Educazione nel senso più semplice del termine ( chi dice più “grazie”, “prego”, “buongiorno” …) ma soprattutto educazione al rispetto degli altri, della proprietà degli altri, della persona e della dignità degli altri. Oggi i genitori tendono sempre più a proteggere i propri figli dai pericoli, non ad insegnare come affrontarli. Si cerca la via più facile non quella più giusta. Gli ostacoli non vanno più affrontati, ma aggirati e se qualche docente cerca di far capire che lo studio è fatica, è conquista, è cammino verso un obiettivo da raggiungere, anche con le normali cadute ( che poi vuol dire meritare un’insufficienza), il genitore invoca clemenza per non incidere sull’autostima del pargolo. Quasi che l’autostima si regali e non la si conquisti con la dura fatica quotidiana. Ma, si sa, oggi la fatica va aggirata, eliminata,  pur di non turbare l’armonioso sviluppo del figliolo… Ma così educhiamo e cresciamo una generazione di rinunciatari, di sottomessi, di disimpegnati. In buona sostanza: di mediocri. E così nella didattica c’è un eccesso di schede, mappe concettuali, riassunti, slides, dispense, per facilitare lo studio; e questo mi sta bene se è una facilitazione che porti a maggiore approfondimento, a maggiore comprensione e non ad una rimasticatura di nozioni, ad una supersintesi che nulla costruisce,  dimenticando che lo studio – che è passione – è anche fatica. Non si abituano più i giovani a riflettere, ad analizzare, ad affrontare le difficoltà,  ma ad enunciare, a sintetizzare, ad avere una visione schematica della vita e delle conoscenze.

E la scuola cambia, continua a cambiare, per … adeguarsi al mondo che cambia. Ma come cambia? Invece di “alzare l’asticella”, pretendere una preparazione più adeguata, più sicura per avere una generazione più preparata ad affrontare le sfide del futuro, si cerca di smussare, evitare gli ostacoli, dare una formazione sempre meno critica. Così nascono le polemiche sul liceo classico; così abbiamo le revisioni degli Esami di Stato; così abbiamo nel corso degli anni un procedere ondivago, dal togliere gli esami di riparazione all’inserire i “debiti didattici”, che è un far rientrare dalla finestra quello che si è cacciato dalla porta; così si introduce l’ ”alternanza scuola/lavoro”, egregia innovazione che si scontra – fra l’altro - con la realtà di dover trovare un numero sufficiente di aziende che ospitino i giovani di tutti i trienni superiori delle scuole italiane!In tempo di crisi, poi; in un momento in cui le aziende non hanno proprio il tempo, e crediamo la voglia, di affiancare a giovani spaesati e spesso demotivati un tutor che li possa seguire. Certo ci sono esempi encomiabili, ma sono esempi : cosa avviene nella realtà in molti casi?

C’è bisogno di una vera rivoluzione culturale che ci faccia uscire dall’appiattimento, dal qualunquismo culturale e linguistico, dall’accettazione acritica di ogni nozione o notizia che ci viene offerta dai mass media, dalla televisione, dalla carta stampata, dalla chiacchiera quotidiana. Non sono certo riflessioni nuove; sono decenni ormai che si parla di ciò, ma non solo non si notano evoluzioni ma si constatano peggioramenti. Non è certamente un rimpiangere il tempo passato, un canto nostalgico, ma il constatare che “abbassare l’asticella” sta facendo crescere una generazione che ha perso i pochi punti di riferimento che aveva. Chi vive nelle aule scolastiche vede come molti giovani, non certo tutti, non abbiano il senso del dovere, del rispetto per gli altri, il rispetto per la proprietà degli altri. E non si tratta di non voler accettare il mondo che cambia, perché se il mondo cambia e offre modelli che contrastano con una sana visione della vita, beh forse è proprio il caso di contrastare questa deriva.

A. F. Vinci

Chi è Barbarossa?

L'ombra di Federico I di Hohenstaufen, il Barbarossa, appunto, si aggira tra le nostre contrade , da quando a Legnano venne sconfitto dalle truppe dei Comuni alleatisi nella Lega lombarda. L'imperatore aveva cercato di difendere le sue terre da quei Comuni che volevano la libertà, aveva cercato di tenere saldo l'Impero, ma non poteva andare contro la storia. Aveva accarezzato il lungo sogno di restaurare il... Continua >>

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