Letture

Letture - NUMERO 64

Che genere di partito è allora FdI?

“Come hanno scritto di recente il direttore dell’Istituto Cattaneo, Salvatore Vassallo – che è stato deputato del Partito democratico – e il sociologo Rinaldo Vignati – lui pure non sospettabile di simpatie per l’oggetto di studio –nel loro libro Fratelli di Giorgia (Il Mulino), è il partito della destra nazional-conservatrice italiana. Né una mascheratura dell’eterno fascismo risorgente, come vorrebbe la parte più retrograda e miope della sinistra, né un partito  di “destra radicale populista”. (Intervista di Francesco Borgonovo al politologo Marco Tarchi su La Verità del 15 luglio, Senza soluzioni all’immigrazione Fdi regalerà elettori ad altri partiti).

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“L’America riuscirà mai a curare le ferite della sua guerra civile, che qualcuno ancora chiama pudicamente “guerra di Secessione”? Il nuovo divampare della questione razziale impone di studiare eventi accaduti un secolo e mezzo fa. Di tutti i conflitti che gli Usa hanno combattuto, quello che ha fatto più morti oppose gli americani ad altri americani. Più delle due guerre mondiali, più del Vietnam, a riempire i cimiteri negli Stati Uniti è stato un massacro tutto interno. E’ una storia di cui non esiste una narrazione unica. Nella versione dei “vincitori”, quella guerra ebbe al centro l’abolizione dello schiavismo: una guerra santa, uno scontro di civiltà che ha fatto prevalere la causa giusta. Nella versione sudista, invece, fu una colonizzazione da parte del capitalismo di New York e Chicago. Si può trovare qualche analogia con la lettura vittimista che in Italia una certa cultura meridionale ha fatto dell’unificazione: tutti i mali del Mezzogiorno sarebbero nati dalla conquista da parte dei predatori piemontesi; anche negli Stati Uniti il Sud rimane più povero ancora oggi e qualcuno pensa che la colpa sia degli altri. Lo schiavismo però aggiunge una dimensione unica alla vicenda americana” (Federico Rampini, I cantieri della storia, Ed. Corriere della Sera, 2022, pag.37).

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Con queste parole il maestro Alberto Veronesi ha spiegato il suo gesto di protesta  al 69° Festival  Pucciniano di Torre del Lago, dove ha diretto una Bohème  che la regia aveva realizzato con lo sfondo dell’Opera ambientato nel ’68, il tempo della contestazione, e con una Mimì in minigonna e reggiseno.

“Non volevo destare alcuno scalpore : d’altra parte, ho ricevuto diffide a riportare qualsiasi commento pubblico su questa versione della Bohème con un atteggiamento questo sì censurabile. Di fronte alla scelta registica dallo stile sovietico, molto diversa rispetto a quella accordata, ho deciso di calarmi sugli occhi una fascia e ho cominciato a dirigere l’orchestra bendato senza dire una sola parola. Poiché non gradivo scene e interpretazioni, mi sono limitato a considerare la parte musicale” (Luca Beatrice, Il Maestro si copre gli occhi contro la Bohème comunista, Libero, 16 luglio, pag.18).

LETTURE - NUMERO 63

La rubrica “Letture” non segue un filo cronologico, ma quello della presenza di tematiche nel “Barbarossaonline”. Quindi non stupitevi se qualche testo risulta un po’ datato: sono “pillole” di riflessione.

“Certo, la demografia è in crisi anche negli USA e, se aggiungiamo l’Europa e il Giappone, abbiamo fatto tombola: tutto l’Occidente è in piena regressione demografica. Il punto è che non sentiamo più la necessità della prosecuzione, sia come Nazione, sia come specie. Non sentiamo più la necessità che la società, l’Italia e l’Occidente progrediscano…Quindi c’è un fallimento che chiamo “di civiltà” “ (Roberto Volpi, L’estinzione degli italiani, intervista di Eleonora Barbieri sul “Il Giornale” del 10 luglio 2022, pag.20; a proposito del saggio di Roberto Volpi, Gli ultimi italiani. Come si estingue un popolo, Solferino, pagg.272,euro 16.50).

“Decisionismo, legalità, rigore, riforme, merito, partecipazione, senso dello Stato, equità fiscale, giustizia sociale, identità nazionale, destini comuni, coesione, ruolo della famiglia: è il tempo della destra, allorquando tutti questi fattori si fanno domanda sociale.

E’ evidente come non ci sia nulla di “moderato” in tutto questo. Non c’è nel senso di un moderatismo che sa di compromesso, di piccolo cabotaggio, di “qualunquismo”, termine con cui vogliamo identificare un’idea “debole” di politica, di cultura, di società, un’idea accomodante, magari giocata “sul fare”, ma priva di spessore ideale, di “memoria”, di radicamento. Al contrario immaginiamo una nuova stagione politica e culturale, in grado di vivificare un’appartenenza dandole concreta realizzazione (oggi) e più ampie prospettive (il dopodomani  evocato da Prezzolini).

Concretezza e suggestioni, realismo e aspettative: in questo mix l’affascinante impegno del ripensamento-cambiamento può diventare un obiettivo concreto e vincente. Senza torcicolli. Senza nostalgie. Impegnati ad affrontare le sfide della postmodernità” (Mario Bozzi Sentieri, La destra di oggi e quella di dopodomani, in Il Borghese, novembre 2022, pag.5).

“La crescita rapida ed espansiva dell’intelligenza artificiale coincide infatti con la decrescita altrettanto rapida ed espansiva dell’intelligenza umana, delle sue connessioni vitali e mentali con la storia, con la tradizione, con il linguaggio, con la capacità di progettare il futuro e governare i cambiamenti, la regressione del pensiero, oltre che della religione,  col declino dell’arte e l’atrofizzazi0ne progressiva, come una paralisi, delle facoltà naturali, socievoli e intellettuali dell’uomo e con un calo progressivo e allarmante del quoziente intellettivo. Si realizza appieno quel “dislivello prometeico”, di cui scriveva Gunter Anders ne L’uomo è antiquato: ossia cresce la tecnica e decresce la cultura, cresce l’artificiale e sparisce il naturale, cresce il robot e declina l’uomo. Si ingigantisce cioè la forbice tra tecnica e sapere, il mondo artificiale si espande mentre si contrae la nostra capacità di conoscerlo, di capirlo e quindi di governare gli effetti” ( Marcello Veneziani, Non diventiamo collaborazionisti dei robot, Il Giornale, 3 febbraio 2023, pag. 16).

Dall’ intervista al professore Paolo Crepet, psichiatra, sociologo, saggista : Fabio Gervasio,  “I genitori non siano i sindacalisti dei propri figli. Non hanno competenze in materia per giudicare i docenti” in Orizzonte scuola, 18 agosto 2021.

“Un’ultima domanda. L’alleanza educativa tra scuola e famiglia è sempre più un’utopia. Le performance scolastiche vengono viste sempre più come gare dove il fallimento non può essere contemplato, con gravi ripercussioni sugli studenti che vivono con ansia le verifiche e a volte crollano per un fallimento. Quanto è importante il diritto di sbagliare e come dovremmo riscoprire l’alleanza scuola-famiglia per crescere in maniera più sana i nostri giovani?

Le famiglie devono comprendere che sul piano educativo è importante delegare alla scuola questa funzione. L’educazione dei propri figli è compito degli insegnanti e i genitori non devono diventare una specie di sindacalisti dei propri figli mettendo in discussione le valutazioni dell’insegnante senza nemmeno avere competenze in materia. L’eccesso di buonismo di molti genitori è un boomerang che si ritorce nei confronti dei propri figli. L’alleanza educativa tra scuola e famiglia non può che ripartire dal riconoscimento della funzione e del ruolo del docente. Per quanto riguarda il diritto di sbagliare questo è un aspetto importante da un punto di vista pedagogico. I ragazzi devono capire che quando non si è preparati si incappa in brutti voti che possono portare anche alla bocciatura. Una scuola che non boccia più è fallimentare. Promuovere anche chi non lo merita è sbagliato, abbiamo bisogno di una scuola meritocratica dove ognuno riceve per quello che dà. I ragazzi devono capire che esistono anche i fallimenti, metabolizzarli e superarli. Questo è il modo per poter crescere persone più consapevoli delle proprie capacità. Partire dai propri sbagli e migliorarsi ci permette di superare i fallimenti e questa capacità è fondamentale per essere in grado di affrontare i problemi, viceversa chi non si è mai imbattuto in un fallimento scolastico avrà difficoltà anche nella vita quotidiana a reagire alle difficoltà che di volta in volta ci troveremo ad affrontare.”

Elogio della cattiveria - NUMERO 62

Accade, quando metti in ordine la tua libreria, di trovare all’improvviso un libretto che non ricordavi di avere. Infilato tra tomi di maggiore peso (cartaceo), è passato inosservato nel tempo. Eppure già il titolo ti desta un’immediata curiosità :”Elogio della cattiveria”. L’autore, poi, un professore universitario venuto a mancare alcuni anni fa, ma che fu un noto economista. Sto parlando di Sergio Ricossa, il cui libretto dal titolo così accattivante ha come sottotitolo “La forza del pensiero straborghese spiegato dal principe degli economisti liberali (a cura di Paolo Del Debbio)”, per le edizioni de “il Giornale”. La conferenza, che dà il titolo al libretto, era del 1998, ma quanta attualità in quelle parole. “Il vocabolario buonista è falso dalla A alla Zeta. Il mondo dei poveracci è il Terzo mondo. I Paesi sottosviluppati sono Paesi in via di sviluppo. Gli immigranti afroasiatici sono extracomunitari. D’accordo, non bisogna offendere nessuno, nemmeno e soprattutto quando gli offesi siamo noi. Per gli islamici, sempre più numerosi, che abbiamo in casa, noi siamo gli infedeli, ma non vale il diritto di reciprocità, a noi non è lecito dire che gli infedeli sono loro. Finiremo col censurare la Divina Commedia, perché Dante (toscano, quindi cattivissimo) mise Maometto all’inferno. Anzi si finirà con l’abolizione dell’inferno da parte della Chiesa, per non offendere i peccatori, i quali non saranno più peccatori bensì erranti per distrazione, ragazzi un po’ vivaci in vena di simpatiche birichinate”. Un brano degno dell’ironia del miglior Vittorio Feltri o di Vittorio Sgarbi! Come si fa a dare torto a Sergio Ricossa? Siamo assediati dal politically correct che ci rende titubanti nel parlare, timorosi di poter offendere qualcuno. Intendiamoci: correggere espressioni verbali e  modi di dire aiuta a eliminare pregiudizi, false visioni della vita, distorsioni stratificate nell’arco di decenni. Pensiamo, ad esempio, alle espressioni che vengono rivolte a persone omosessuali. Parole che deridono, che offendono e che ledono la dignità. D’altra parte, però,  il rischio è quello di dar vita ad una sorta di caccia alle streghe, di assillare la gente con  la continua correzione della propria libertà di parola. Però, lo ripetiamo, non dobbiamo cadere nel tranello di voler difendere la libertà d’espressione quando essa diventa libertà di offendere. Esiste un “Manifesto della comunicazione non ostile” nato per la Rete, ma ben presto declinato anche per diversi ambiti: “per la politica, per la pubblica amministrazione, per le aziende, per l’infanzia, per lo sport, per la scienza e per l’inclusione”, come ricorda il sito “paroleostili.it . Colpisce di questo decalogo il punto n. 8 : “Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare. Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare”. Ecco, non guardiamo gli altri come nemici solo perché non la pensano come noi o non agiscono come noi o non hanno gli stessi gusti sessuali, idee politiche, simpatie calcistiche. Eppure quante volte vediamo, ad esempio, genitori che incitano i propri figli nello sport contro gli avversari come se fossero nemici da eliminare dalla faccia della Terra! Abbiamo perso il senso del rispetto per gli altri, per la dignità delle persone. C’è da ricostruire senza fanatismi e intolleranze l’intolleranza verbale. Una scommessa non facile da vincere ma che va affrontata prima di tutto in famiglia e poi nella scuola. Povera scuola, anche di questo si deve fare carico!

Petronio

Solo Vittorio Sgarbi poteva mostrarci un Leonardo così vicino a noi. Nel suo “Leonardo – Il genio dell’imperfezione”, ed. La nave di Teseo, nel pieno delle celebrazioni leonardesche ci viene mostrato un Leonardo “imperfetto”, e per questo più vicino a tutti noi: ”Leonardo è stato ogni cosa: scrittore, architetto, scultore, pittore; ma sebbene di lui vi siano immagini innumerevoli, non si conoscono i suoi progetti architettonici, e le sue sculture. In lui il tentativo è stato sempre più forte della realizzazione delle cose. La pittura è il momento più pieno di questa carriera incompleta, frammentaria e divisa, che lo rende così vicino alla sensibilità contemporanea”. Un Leonardo “imperfetto”, che realizza le sue opere come l’altro genio di quegli anni, Michelangelo, per il quale adoperiamo l’espressione di “non finito”. Ma se sostanzialmente è la stessa cosa, per Leonardo l’ ”imperfezione” è il segno del suo essere uomo, della incapacità ( o volontà) di tradurre in opera finita, perfetta. Dice Vasari nelle “Vite” – “Trovasi che Lionardo per l’intelligenza de l’arte, cominciò molte cose e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiungnere non potesse alla perfezione de l’arte nelle cose che egli si imaginava, con ciò che si formava nella idea alcune difficultà tanto maravigliose che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai”. Nelle pagine scritte da Sgarbi troviamo un Leonardo che non ti aspetti. Arriva a Milano nel 1483 con uno strumento musicale, la lira, che aveva fabbricato e con il quale superò i musici con i quali si misurò. Non solo. Leonardo risultò il miglior dicitore di rime all’improvviso: insomma, una specie di menestrello. Ma è lo stesso che costruisce un automa, un leone, che camminò per alcuni passi in occasione della visita di Luigi XII di Francia a Ludovico il Moro: un automa da cui fuoriuscivano i gigli, simbolo della Francia. E così, tra riproduzioni delle opere di Leonardo e dotti riferimenti ad altri pittori del tempo, Sgarbi ci accompagna sino all’ “ultima Cena”. E qui scopri che il deterioramento del capolavoro è dovuto non al tempo o ad altri fenomeni ma ad imperizia di Leonardo: il Maestro non dipinse quando l’intonaco non era ancora asciutto, come vorrebbe la tecnica dell’affresco, ma dipinse a secco. Così, commenta Sgarbi “ con una analogia potremmo dire che l’opera che vediamo ora sta all’originale come la Sindone sta al corpo di Cristo”. Insomma Leonardo, invece di dipingere il suo capolavoro in una serie limitata di giornate, come voleva la tecnica, poneva mano all’opera quando ne aveva voglia.

 

GIOSAFATTE

La memoria cancellata - Numero 60

Si chiude quest’anno che celebra il centenario della Vittoria. Ma come è stata celebrata questa ricorrenza? A parlarne con toni accesi e fortemente critici è un articolo apparso su “Storia in rete” di dicembre, a firma di Emanuele Mastrangelo e Enrico Petrucci. Il titolo è sintomatico: ”I nemici della vittoria”. I luoghi più sacri della storia nazionale, i luoghi del ricordo della I guerra mondiale, il Sacrario di Redipuglia, il tempio-sacrario di Milano, il Ponte degli Alpini di Bassano, sono stati tutti oggetto di restauri che non si sono conclusi in tempo utile per le celebrazioni. Puntuale, dunque, la ricostruzione dello stato di degrado e dei lavori occorrenti. Ma non ci si ferma qui. Secondo gli autori dell’articolo: “Fin dall’apertura del centenario, tre anni fa, sono circolate “veline” che dicevano “non si celebra, si commemora”. Ad essere accusati sono anche i giornali che hanno riportato i discorsi del Presidente della Repubblica mettendo in evidenza più che altro l’aspetto pacifista. Insomma, una volontà di non celebrare, di sottolineare solo l’aspetto dell’ ”inutile strage” e del richiamo all’europeismo. L’articolo, molto ben articolato e diffuso nell’analisi, mette in luce il disimpegno degli intellettuali in merito alle celebrazioni e, soprattutto, l’intento di riscrivere la storia della I Guerra mondiale, interpretandola solo nel suo inutile tributo di sangue. Che inutile non fu. Non si tratta di celebrare la guerra, lo spargimento di sangue nostro o dei nemici della Patria: la guerra deve essere sempre condannata. Ma il sacrificio di seicentonovantamila italiani morti, operai, contadini, studenti, gente umile che si sacrificò per completare il Risorgimento, non può essere taciuto, sminuito, dimenticato. E invece si assiste ad una sorda dimenticanza, ad una sottile trascuratezza e negazione della nostra identità. Dal 1977 il 4 novembre non è più Festa nazionale e viene celebrato la prima domenica del mese, diventando Festa dell’unità nazionale e delle Forze Armate. Ma, senza entrare nel merito della decisione, non celebrare più con un giorno di festa quella vittoria, ha fatto perdere nella memoria collettiva la sua importanza. Specialmente nei giovani se, come è apparso da un sondaggio, moltissimi giovani non sanno cosa sia successo quel 4 novembre 1918. E’ già successo. E’ successo con la tragedia delle Foibe, con la dimenticanza dell’esilio in Patria di trecentocinquantamila profughi dall’Istria e dalla Dalmazia. Una storia, quest’ultima, riportata alla luce da non moltissimi anni grazie al Giorno del Ricordo, proprio per non cadere nell’oblio. Negazionisti; conformisti per seguire un pacifismo negatore di chi si è sacrificato per la Patria senza nulla chiedere e dando tutto, la vita; uomini dimentichi delle proprie radici per seguire un percorso che neghi la propria storia, la propria memoria: a questo stiamo assistendo. Va detto in modo chiaro e alto un NO alla guerra, ma anche, altrettanto chiaro, un SI al ricordo di chi in guerra ha sacrificato se stesso perché si aprisse un periodo di pace.

A.F.V.

Ha fatto un certo scalpore l’intervista rilasciata da don Luigi Larizza, parroco della chiesa del Sacro Cuore di Taranto, riportata da “La fede quotidiana”, pubblicazione via web diretta da Michele M. Ippolito. Per l’importanza e la posizione, certamente minoritaria, nell’ambito della Chiesa cattolica, riportiamo uno stralcio dell’intervista, del 16/07/2018, a cura di Bruno Volpe:

http://www.lafedequotidiana.it/don-luigi-larizza-salvini-non-va-vangelo

” Per me, Salvini non è il male assoluto e a mio giudizio non va contro il Vangelo. Semmai, indemoniato è chi, sapendo di mentire, organizza campagne mediatiche disoneste. Qui si mettono in discussione i sacerdoti che lavorano onestamente, mentre tanti parlano e non combinano niente. La Chiesa, che siamo tutti noi popolo di Dio, non è infallibile e, spiace dirlo, il dio denaro, talvolta  fa capolino. Anche qui a Taranto, nel nome dell’accoglienza, ci sta chi si è fatto e fa soldi. Probabilmente si teme che le posizioni di Salvini pongano fine a certi giochi”.

Però la stampa…

” La grande stampa è in mano alla massoneria e alla sinistra. Mi attaccano se dico questo? Sono orgoglioso, non me ne vergogno”.

Migranti, vanno sempre accolti?

“Spiego perché Salvini è coerente con la dottrina cattolica. Se io sono a capo di una famiglia, devo provvedere prima di tutto ai miei figli, dopo a chi arriva. Funziona in questo modo. Semmai è poco lucido chi fa il contrario. Indubbiamente la carità, è aperta a tutti, senza discriminazione di pelle ed etnia, però bisogna iniziare da coloro che sono più vicini. Oggi constato che i poveri italiani non hanno tante attenzioni anche mediatiche come i migranti, forse perché non rendono trentacinque euro a testa”.

Il titolo del pamphlet di Matteo Sacchi richiama chiaramente quello del film di Carlo Vanzina del 1985 “Sotto il vestito niente” ( tratto dall’omonimo romanzo di Marco Parma). Lì si respirava l’atmosfera della “Milano da bere” degli anni Ottanta, una Milano dinamica, effervescente. Il libro di Sacchi, invece, si intitola “Sotto l’antifascismo niente” ( ed. de il Giornale) ed è l’immagine dell’Italia di oggi, una certa Italia che cerca di cancellare un passato scomodo con una proposta di legge, la legge del deputato del PD Emanuele Fiano. Questa legge ora, sciolte le Camere, non sarà più in discussione in questa Legislatura, ma il polverone sollevato resta. Sacchi, pur in poche pagine, riesce a porre degli interrogativi di non poco conto. Prima di tutto : “E’ così semplice capire quando siamo  davvero di fronte ad una minaccia per la democrazia? ”. Non è affatto facile e allora l’autore si sofferma su quanto presente nella nostra Costituzione, sulla legge Scelba del 1952, sulla legge Mancino del 1993. Il nodo della questione è che si dovrebbe varare una legge in difesa della democrazia e contro ogni forma di totalitarismo, compreso quello comunista. Una legge che tuteli la democrazia, colpendo la condotta di chi costituisce un serio pericolo per la democrazia stessa. Con questo Sacchi riesce, in poche pagine, a colpire nel segno. Le forme antidemocratiche, il virus dal quale dobbiamo guardarci non è di un solo colore né relegato nelle pagine della storia. Tutto ciò indubbiamente esula da abrasioni di dediche a Mussolini, mettere fuori legge bottiglie con sopra l’etichetta del Duce, vietare la vendita di gadget, magliette e quant’altro faccia riferimento al passato regime. “ Il fatto più grave” – continua Sacchi – è che guardare solo e soltanto a totalitarismi di ieri, morti e sepolti, è, al minimo, una forma di miopia politica. Più probabilmente, invece, è un modo surrettizio di continuare a fare politica sull’oggi utilizzando i pericoli di ieri”. In Germania, Paese che ha fatto i conti con la sua storia, l’art. 21 della Costituzione tedesca può essere utilizzato contro qualsiasi pericolo antidemocratico, non cadendo così nella trappola dell’anacronismo; viene poi citato il caso degli USA, ma in ambedue i casi ci si scontra con la realtà quotidiana che ha  presentato, comunque, formazioni politiche, gruppuscoli, potenzialmente eversivi, anche se con scarso seguito. Insomma una legge contro il radicalismo è non solo utile ma necessaria, ma deve avere soprattutto il carattere di generalità per non cedere alla tentazione di perseguire solo certe formazioni chiaramente etichettate e trascurare chi attenta realmente alla democrazia, di qualunque colore sia. In chiusura del suo lavoro Sacchi cita un’intervista di Pier Paolo Pasolini a Massimo Fini e pubblicata su L’Europeo: ”Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più …Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di far battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo”. Era il 26 dicembre 1974; l’anno seguente, il 2 novembre 1975 Pasolini moriva.

Il libraio

Letture - Numero 57

“Abbiamo quattro certezze sul fenomeno epocale e senza precedenti dell’ingresso ininterrotto e incontrollato nel territorio nazionale di centinaia di migliaia di persone provenienti dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia. La prima certezza è che sono prevalentemente giovani di sesso maschile di età compresa tra i 20 e i 30 anni. La seconda è che nella stragrande maggioranza sono originari di Paesi dove non sono in corso guerre. La terza è che sono quasi tutti musulmani. La quarta, acquisita grazie alle recenti ammissioni della Bonino, è che il governo Renzi nel 2014 ha voluto che gli sbarchi dalla costa libica avvengano tutti in Italia”. ( Magdi Cristiano Allam, “Migranti” o “profughi”, comunque invasori, Il Giornale, 23 luglio 2017, pag.12).

“Dopo la guerra fredda il mondo è diventato molto più pericoloso per i paesi ricchi perché il contenimento e il controllo che l’Islam può esercitare nei confronti delle proprie forme estremistiche non può che essere molto debole. Infatti – come già si è detto nel capitolo 1 –tra mondo islamico e Occidente non esiste una tensione nucleare analoga a quella della guerra fredda e quindi per quel mondo non esiste la necessità di evitare con ogni mezzo che l’equilibrio con l’Occidente sia messo in pericolo dalle iniziative dell’estremismo terroristico che di quel mondo in qualche maniera si nutre” (Emanuele Severino, Il tramonto della politica, Rizzoli, 2017, pag. 30).

“Eppure le disposizioni diramate fin dal 1916 da parte dei Comandi di Artiglieria italiani erano chiare:

La natura del terreno aspro e difficile in cui si combatte impone a tutti gli ufficiali, cannonieri e bombardieri, di non esitare di fronte a qualsiasi sacrificio di materiale e di sangue pur di cooperare al successo delle fanterie, e perciò nessuna preoccupazione, al momento opportuno, di scoprirsi, non dimenticando che, in certe circostanze il richiamare il fuoco sui propri pezzi può, risparmiando le fanterie, contribuire efficacemente al successo.

Nonostante ordini tanto perentori, a Caporetto queste disposizioni non vennero applicate, semplicemente perché non venne dato l’ordine di sparare sul nemico in avanzata” (Claudio Razeto, Caporetto – una storia diversa, Edizioni del Capricorno, pag.59).

Chi è Barbarossa?

L'ombra di Federico I di Hohenstaufen, il Barbarossa, appunto, si aggira tra le nostre contrade , da quando a Legnano venne sconfitto dalle truppe dei Comuni alleatisi nella Lega lombarda. L'imperatore aveva cercato di difendere le sue terre da quei Comuni che volevano la libertà, aveva cercato di tenere saldo l'Impero, ma non poteva andare contro la storia. Aveva accarezzato il lungo sogno di restaurare il... Continua >>

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